Alcune riflessioni sul Ni Una Menos in Argentina

Striscione di apertura del corteo contro i femminicidi del 3 giugno 2019, Buenos Aires

Non è facile effettuare un’analisi esaustiva del Ni Una Menos in Argentina, il movimento femminista in questo paese è infatti molto complesso in quanto composto da numerosissimi gruppi eterogenei fra di loro ed è fortemente influenzato dalle dinamiche politiche e partitiche del paese. Ho riscontrato non poche difficoltà nel cercare di capirne le caratteristiche, i meccanismi decisionali interni e le relazioni fra i vari gruppi che lo animano soprattutto prendendo come termine di confronto il movimento femminista italiano Non Una di Meno da cui provengo. Inizialmente, infatti, mi aspettavo di trovare una realtà organizzata simile con gruppi territoriali e regolari assemblee nazionali, scoprendo invece che si trattava di un movimento fluido e in divenire ma allo stesso tempo molto radicato nella società argentina. Cercherò qua di condividere alcune riflessioni generate da circa tre mesi di interazioni con compagne di gruppi femministi, delle università e con altre femministe non militanti che ho incontrato durante il mio viaggio di esplorazione dei femminismi in Argentina fra marzo e luglio 2019. Spazierò un pò oltre la tematica della sicurezza, centrale in questo blog, per analizzare anche gli aspetti più generali del movimento come la sua genesi, il suo impatto, le sue caratteristiche in termini di composizione e di  struttura organizzativa, in particolare il ruolo dei partiti e le dinamiche interne di inclusione ed esclusione. Un tema trasversale che guida questo articolo sarà comunque quello delle (in)sicurezze. Discuterò come le insicurezze generate dal governo di Mauricio Macri[1] – attraverso le politiche repressive del dissenso e neoliberali che hanno colpito soprattutto i gruppi più marginalizzati e discriminati – abbiano facilitato i processi sociali che hanno portato alla nascita del movimento Ni Una Menos. Tratterò anche delle sicurezze generate dal movimento in termini di un’acquisita coscienza sociale e di alternative elaborate e attuate per rispondere alle vulnerabilità di tipo economico e alla violenza di genere; proverò anche a riflettere sulla portata e potenziale di trasformazione sulla società e sul movimento stesso verso una maggiore inclusione sociale come effetto della forte eterogeineità e diversità del movimento.

Date le premesse precedentemente esposte, questa analisi non può che essere parziale in quanto affronta in maniera sparsa solo alcuni degli aspetti relativi al movimento ed è da considerarsi una soggettiva interpretazione del fenomeno Ni Una Menos in Argentina; gradirei pertanto un confronto e scambio di opinioni con altre persone che hanno studiato o conoscono questo contesto.


1. Ni Una Menos – una esplosione (in)aspettata e ricadute sulla società

Il Ni Una Menos è stato accolto dalla stampa nazionale ed internazionale come un fenomeno inaspettato, come un’esplosione improvvisa della coscienza femminista generata dalla rabbia verso l’ennesimo violento femminicidio sul corpo di una giovane donna, Chiara Páez di 14 anni, che era incinta, uccisa e sotterrata dal suo ragazzo.  Si parlò molto anche della potenza dei social media nel mobilitare le masse nella grande manifestazione del 3 giugno 2015 in centinaia città argentine e che vide una concentrazione di circa 300.000 persone solo in Buenos Aires. Appena un mese prima un gruppo di giornaliste note come Marta Dillon e Florencia Alcaraz avevano costituito il collettivo Ni Una Menos; questo, alla notizia del femminicidio di Chiara Páez, lanciò via Twitter l’idea di organizzare una manifestazione nazionale contro i femminicidi con lo slogan “Ni Una Menos” (Non Una di Meno); questa proposta divenne velocemente contagiosa e catalizzò un consenso diffuso su tutta la rete[2]. A partire dalle alleanze nate nelle assemblee di preparazione del corteo del 3 giugno,  le varie realtà che vi avevano preso parte continuarono a coordinarsi  lanciando potenti chiamate verso tutti i movimenti femministi del mondo per organizzare manifestazioni transnazionali come quelle del 25 novembre 2016, in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, e il primo sciopero globale delle donne dell’8 marzo 2017; il Ni Una Menos in Argentina contribuì a dare nuovo slancio ai femminismi in varie parti del mondo stimolando la costituzione di movimenti affini in tutta America Latina e in Europa, incluso il caso italiano di Non Una di Meno.

Prima di cominciare con questa trattazione vorrei fare una piccola precisazione. Il fatto che il collettivo Ni Una Menos abbia avuto inizialmente un ruolo importante nell’attivare la partecipazione alle prime grandi mobilitazioni femministe ha creato a mio parere una certa confusione (personale ma anche riscontrata parlando con alcune compagne italiane) anche a causa della sovrapposizione di nomi fra il collettivo Ni Una Menos e il movimento Ni Una Menos. Anche se si chiamano nello stesso modo, il collettivo e il movimento sono due entità diverse. Il Collettivo Ni Una Menos è un gruppo di attiviste femministe esperte della comunicazione; queste hanno saputo utilizzare abilmente i canali di comunicazione di massa per socializzare alcune riflessioni e rivendicazioni che poi stimolarono manifestazioni di presa di parola pubblica, sono sempre state loro a prendere l’iniziativa di convocare per la prima volta le numerose e diverse realtà femministe di Buenos Aires al fine di preparare unitamente la manifestazione contro i femminicidi, il primo sciopero femminista dell’ottobre 2016 e a promuovere la costituzione delle assemblee Ni Una Menos nelle varie città; il movimento Ni Una Menos invece è molto eterogeneo ed è composto da collettivi, associazioni, sindacati, partiti e singole partecipanti che organizzano congiuntamente, coordinandosi attraverso assemblee cittadine, iniziative e mobilitazioni a livello nazionale e locale e in particolare il 3 giugno (manifestazione contro i femminicidi), il 25 novembre (giornata internazionale contro la violenza sulle donne) e l’8 marzo (sciopero globale femminista). Esiste una tendenza generale a prendere il collettivo Ni Una Menos come referente dell’intero movimento; il collettivo certamente funge da lente di ingrandimento di alcune istanze importanti ma non può essere rappresentativo di tutte le lotte del movimento, che sono varie e plurali e sfuggono a qualsiasi rappresentazione univoca.

1.1. Impatto sulla società

Dopo il 3 giugno 2015 niente fu uguale a prima in Argentina. Questa data rappresentò uno spartiacque per il movimento femminista: si generò e si sviluppò una riflessione profonda sulla violenza di genere all’interno della società e nell’agenda politica, questa non poteva essere più ignorata o tollerata, considerata come un fenomeno naturalizzato o come un problema privato, la violenza sulle donne aveva smesso di essere un tabù. Assemblee femministe si formarono in numerose città e il femminismo cominciò ad incardinarsi in qualsiasi realtà politica e sociale, vennero istituite sezioni femministe nei partiti, nei sindacati, nelle università, nelle organizzazioni di base e di quartiere, si costituirono reti di docenti, di avvocate e professionali di vario tipo, mettendo in discussione i rapporti di potere scaturiti dalle disuguaglianze di genere nelle realtà lavorative e sociali. Nei quartieri (barrios) le organizzazioni territoriali di partito e le tante altre organizzazioni di base hanno iniziato ad affrontare tematiche femministe e a parlare di violenza di genere. Le donne dei quartieri popolari hanno cominciato ad aprirsi e condividere le proprie esperienze per rendersi conto che le violenze e le discriminazioni che subivano non erano questioni personali ma problemi comuni a molte altre donne a loro vicine. Proliferarono collettivi femministi di ogni tipo: delle marroni[3], non binar*, afrodiscendenti, migranti, delle grasse, delle sorde, di accompagnamento all’aborto[4], delle attrici, delle artiste di vario tipo, professioniste dei più svariati settori lavorativi ecc. aggiungendosi a quelli storici di sinistra e delle trans/travesti oltre alle associazioni di donne indigene e al sindacato delle sex workers. Cominciarono a crearsi micromondi femministi, reti di supporto vicendevole attraverso la diffusione di reti professionali e artistiche e attività commerciali femministe[5]. Il femminismo ha agito un grande richiamo sulle adolescenti che si sono identificate molto col movimento, hanno cominiciato a parlare di violenza di genere nella scuola secondaria, hanno messo in discussione il ruolo e comportamento che veniva loro richiesto e hanno avuto la possilità di esplorare il proprio corpo e sessualità in modo diverso; queste hanno acquisito una sorprendente capacità di analisi della violenza di genere e rappresentano attualmente un asse portante dei cortei animandone le primissime file. Il femminismo ha permeato tutti gli strati della società ma sicuramente con gradi di intensità diversi, essendo più sentito nelle grandi città del centro del paese come Buenos Aires, Rosario, Cordoba e Mendoza. Questa marea femminista, che si è conquistata lo spazio pubblico rendendosi visibile nelle piazze e nei mezzi di comunicazione di massa, ha generato quindi una grande trasformazione sociale anche considerando che prima del 2015 in poche si definivano femministe, termine a cui veniva attribuita un’accezione negativa.

Il Ni Una Menos ha generato una maggiore sicurezza in termini di protezione sociale collettiva che si traduce in una maggiore capacità di riconoscere, discutere pubblicamente e denunciare le violenze che le donne subivano. Questo è dimostrabile dall’impennata degli accessi al 144, il numero verde dove si possono rivolgere le vittime di violenza. Solo nel 2015 si è passati da 1.000 contatti telefonici giornalieri a 13.700 e quelli di Buenos Aires hanno avuto un incremento del 300%[6]. Inoltre dal 2013 al 2017 si sono quadruplicate le denuncie presso le istituzioni pubbliche per violenza fisica o psicologica[7]. Il Ni Una Menos ha stimolato l’adozione di leggi e politiche importanti di riforma della legislazione in materia, come la Legge 27.210 che ha istituito il gratuito patrocinio per le vittime di violenza di genere, la Legge Brisa che ha previsto un risarcimento economico agli orfani di femminicidio e la Legge Micaela che ha introdotto una formazione obbligatoria per i funzionari pubblici sulla violenza di genere. Nonostante sia positiva l’approvazione di queste leggi – come anche espressione di un interesse istituzionale ad affrontare le questioni – queste tuttavia non sono sempre implementate e finanziate, continuando ad essere la risposta statale deficiente rispetto alla portata del fenomeno[8]. Come purtroppo succede anche in altri contesti, se esiste una maggiore consapevolezza, questa non si traduce in una conseguente riduzione della violenza e dei femminicidi che tuttora presentano tassi allarmanti[9].

giugno 2019: tutti i giovedi da 42 anni le Madres de Plaza de Mayo si riuniscono e manifestano in Plaza de Mayo per chiedere giustizia per i figli desaparecidos



1.2 Le radici del movimento: il sostrato sociale in ebollizione e il ruolo delle insicurezze

Grazie alla possibilità di penetrare i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto su Twitter, Instagram e sui canali di informazione influenti come quotidiani e televisioni, le riflessioni sulla violenza di genere si sono diffuse in maniera capillare nei vari strati della società argentina così da mobilitare in maniera massiccia le donne. Le discussioni intervenute nei social media e in altri mezzi di comunicazione hanno avuto la capacità di sfruttare un sostrato sociale, che però era pronto e già in ebollizione, e di canalizzarlo verso grandi manifestazioni. Il Ni Una Menos, come ho precedentemente accennato, è stato avvertito come una esplosione quasi inaspettata,ma in realtà rappresenta l’espressione di processi di maturazione politica e di coscienza collettiva, di resistenze alle insicurezze generate dai governi e di cui molto spesso si sono rese protagoniste le donne.

In primo luogo esiste in Argentina una lunga tradizione del movimento delle donne che è sempre stato, e soprattutto a partire dagli anni ‘70, molto attivo e organizzato con fasi alterne di maggiore e minore visibilità negli spazi pubblici ma sempre presente. Questo è dimostrato dalla continuità e partecipazione agli Incontri Nazionali di Donne che vengono tenuti ogni anno dal 1986 (nell’ottobre 2019 si è tenuto il 34esimo) e che vedono generalmente un’adesione massiccia[10]. Attraverso la cadenza degl’incontri nazionali il femminismo argentino è maturato in termini di elaborazione di pensiero e si è arricchito progressivamente di nuovi gruppi.  Gli anni 2000 hanno rappresentato un momento di particolare fermento che ha visto, accanto alle ONG che promuovevano un femminismo più liberale, i gruppi di sinistra indipendenti. Queste femministe di sinistra hanno continuato a militare nei partiti, sindacati e associazioni e hanno lavorato nei decenni successivi sul territorio, nelle scuole e in contesti di educazione popolare permettendo la diffusione del femminismo in maniera reticolare, capillare e profonda anche nei periodi in cui non era molto visibile nelle piazze.

Il movimento femminista argentino trova anche la sua genealogia nella lunga storia di lotta e resistenza delle donne. Le donne argentine sono state coloro che più nei momenti di crisi hanno avuto la forza di ribellarsi alle ingiustizie e manifestare pubblicamente negli anni della dittatura e in risposta alle manovre neoliberali e di repressione dei vari presidenti che si sono succeduti.

Le donne ebbero un ruolo centrale durante il periodo della dittatura militare (1976-1983) con le Madres de Plaza de Mayo, che nella ricerca disperata dei figli e figlie desaparecidos, furono le prime ad avere il coraggio di scendere in piazza e chiedere giustizia. Queste tuttora rappresentano un importante riferimento politico e simbolico per il movimento femminista (l’utilizzo dei pañuelos è un esplicito riferimento a questo strumento di resistenza per la prima volta utilizzato da loro). Le donne hanno inoltre rappresentato una colonna portante dei piqueteros (movimento dei disoccupati che organizzavano blocchi stradali negli anni ’90) e hanno scatenato le rivolte più incisive nei periodi di crisi economica e per protestare contro le privatizzazioni, l’inflazione e la disoccupazione[11].

Sono sempre state le donne a ribellarsi alla svolta repressiva e neoliberale del presidente Macri; il movimento Ni Una Menos ha infatti organizzato il primo sciopero contro di lui e ha messo al centro delle proteste, oltre alla persistenza dei femminicidi, le conseguenze sulle classi più povere e sulle donne del debito contratto in maniera fraudolenta col Fondo Monetario Internazionale e delle relative politiche di aggiustamento economico.  Il primo sciopero contro Macri del 19 ottobre 2016 è stato non a caso organizzato poco dopo l’Incontro Nazionale delle Donne di Rosario il cui corteo fu brutalmente represso dalla polizia e che vide durante il suo svolgimento una particolare concentrazione di femminicidi in varie parti del paese[12]. Donne e in particolare lesbiche, trans, travesti, indigene, afrodiscendenti, migranti si vedevano sempre più stringere nella spirale di violenze perpetrate sui loro corpi, la violenza domestica era acuita dalle ristrettezze economiche familiari, si respirava un clima politico che incitava all’odio attraverso i messaggi misogini, classisti e razzisti propagati dai rappresentanti del governo Macri. Le conseguenze delle politiche neoliberaliste inasprivano la condizione di esclusione delle categorie di donne già marginalizzate: disoccupazione, licenziamenti in massa, precarietà e flessibilità del lavoro, oltre alle diseguaglianze salariali e il continuo aumento dell’inflazione si traducevano in doppie e triple giornate di lavoro per le donne anche a causa del carico del lavoro domestico non retribuito; le donne sono state coloro che più hanno cercato di attivare reti di mutuo aiuto per sopperire alle ristrettezze economiche attraverso l’istituzione di mense popolari nei quartieri più poveri della città. La morsa sociale si stringeva maggiormente attraverso l’impiego di politiche repressive contro le classi più marginalizzate e impoverite e l’espressione del dissenso: oltre alle cariche della polizia ai cortei e ai picchetti, venivano prese di mira le attiviste che organizzavano le mense popolari[13] e coloro che difendevano i movimenti contadini e indigeni (come dimostrato per esempio dall’incarcerazione di Milagro Sala[14]), la polizia si vedeva ampliare i casi in cui era autorizzata a usare le armi e si è resa responsabile di sparatorie nei quartieri più poveri[15] e fra le popolazioni indigene oltre a sottoporre migranti e prostitute a maggiori violenze ed estorsioni.  Il collegamento fra violenza femminicida, statale e l’aumento della povertà era ormai chiaro e prese forma nel movimento femminista nelle varie manifestazioni contro i femminicidi culminando nello sciopero femminista. Quest’ultimo rappresentava chiaramente una reazione al sistema di discriminazione ed esclusione imposto da cui nasceva la volontà di sottrarsi al sistema produttivo e riproduttivo simbolizzato dallo slogan al centro dello sciopero: “Se le nostre vite non valgono, allora producete senza di noi”.[16]

Il Ni Una Menos si è sviluppato quindi durante un momento di forte malcontento sociale e reazione alle insicurezze generato dalle politiche neoliberali e repressive del governo Macri e ha agito su un sostrato sociale pronto per questo dal punto di vista di ricchezza dei movimenti sociali e della mobilitazione femminile. Se un’esplosione del movimento femminista c’è stata, questa ha dato corpo a tutte le forze già attive nei territori e ha dato sfogo a soggettività escluse a lungo contenute in una pentola a pressione. Nella congiuntura storica contemporanea il movimento Ni Una Menos, nato come reazione ai femminicidi e all’inerzia del governo nell’affrontare la violenza di genere, ha maturato una connotazione politica più forte, convogliando vasti settori dell’antimacrismo e acquisito maggiore slancio come risposta alle acuite diseguaglianze sociali e alla demonizzazione e repressione delle classi povere e emarginate.

3 giugno 2019, Buenos Aires: corteo Ni Una Menos contro i femminicidi – striscione delle “Nere, indigene, razzializzate e dissidenza sessuale”

2. Le caratteristiche del movimento: le dinamiche interne di inclusione ed esclusione

L’analisi effettuata fin qui si sofferma sulla genesi e impatto del movimento Ni Una Menos, questo ci serve per capire il grado di radicamento delle coscienza femminista nella società, le ricadute e gli effetti generati. Allo stesso tempo credo sia anche importante analizzare come le istanze di trasformazione sociale – e in particolar modo di inclusione dei soggetti marginalizzati – siano davvero introiettate nella natura, rappresentazione e pratiche del movimento. Analizzare come certe dinamiche vengono messe in atto al suo interno potrebbe essere utile per misurare la capacità del movimento di attuare il cambiamento che auspica nella società e nelle istituzioni e quindi capire il potenziale trasformativo non solo in termini di sensibilizzazione sulla violenza di genere ma anche di promozione dei diritti e del protagonismo politico delle soggettività escluse. Mi soffermerò sul ruolo critico – a volte produttivo, a volte distruttivo – dei partiti politici e in particolare sui loro tentativi di strumentalizzazione del movimento, di invibilizzazione delle minoranze e la loro mancata interiorizzazione del pensiero e delle pratiche femministe nella propria agenda politica; tratterò anche della presenza preponderante, della partecipazione attiva e del livello di inclusione delle soggettività marginalizzate e sulla capacità del movimento di lasciare spazio nella sua struttura organizzativa e nei suoi canali di comunicazione alle minoranze e alle periferie.

3 giugno 2019, Buenos Aires: striscioni e bandiere di partiti al corteo Ni Una Menos contro i femminicidi

2.1 Il ruolo dei partiti

I partiti politici (di sinistra e vicini all’ala kirchnerista[17]) fin dall’inizio sono stati molto attivi all’interno del movimento e delle assemblee di Ni Una Menos. Questi sono presenti tramite associazioni femministe associate ai partiti che operano nei quartieri delle città incluso quelli più poveri con programmi di educazione di genere, servizi di assistenza alle vittime di violenza e di altro tipo. Queste associazioni, partendo dalle suggestioni che provengono dai territori dove lavorano, riescono a produrre dal basso disegni di legge da presentare al Parlamento (solo per fare un esempio più recente quello sui femminicidi chiamato Emergencia Ni Una Menos elaborato da Malajunta che appartiene al partito Patria Grande). Questo coinvolgimento dei partiti, che porta con sè indiscutibili vantaggi in termini di mobilitazione sociale, ha anche i suoi risvolti negativi. Benché alcune anime all’interno di Una Menos rivendicano l’indipendenza del movimento, non si può certo dire che la si abbia ottenuta; infatti, le componenti e rappresentanti di partito rappresentano una buona fetta in termini di adesione e di partecipazione alle assemblee e ai cortei (con un vasto e visibile dispiegamento di bandiere e striscioni). Questo ha generato una strumentalizzazione delle manifestazioni del 3 giugno a scopi elettorali con tentativi di mettere in risalto il ruolo dei partiti e delle istituzioni (provocando l’invisibilizzazione di altri soggetti quali i genitori delle donne vittime di femminicidio e delle donne indigene)[18]oltre a trasformare talvolta le assemblee in terreni di campagna elettorale. Il coinvolgimento delle rappresentanti di partito nel movimento non significa inoltre che queste siano riuscite a contaminare con contenuti e pratiche femministe le agende e meccanismi interni dei loro partiti, nè tanto più a mettere in discussione le dinamiche patriarcali all’interno degli stessi. La presenza dei partiti inoltre impedisce di assumere delle posizioni critiche rispetto ad alcune forze ed esponenti politici soprattutto nel periodo pre-elettorale e specialmente in Buenos Aires; ad esempio nelle assemblee di preparazione al corteo contro i femminicidi del 3 giugno 2019 di Buenos Aires, i commenti negativi su Cristina Kirchner[19]– riguardo la concessione del monopolio del mercato dei semi alla Monsanto e il conseguente ingresso in maniera massiccia dei pesticidi nel paese oltre al fatto di non aver mai appoggiato l’adozione di una legge sull’aborto –  sono state spesso accolte con fischi da una parte del pubblico. Similmente, ha generato disaccordo la proposta di inserire nel documento finale e nello striscione di apertura del corteo una denuncia esplicita verso i governatori provinciali – molti dei quali kirchneristi – che si erano resi fautori di politiche discriminatorie nelle loro provincie (soprattutto in relazione all’aborto e ai tagli dei servizi pubblici)[20]. In questo caso specifico la voce di quella parte del movimento che rivendica l’indipendenza dai partiti politici è riuscita infine a prevalere e quindi a includere una critica diretta contro i governatori provinciali nel documento di lancio del corteo del 3 giugno[21] e nel suo striscione di apertura[22]. Tuttavia, queste dinamiche e ingerenze dei partiti nel Ni Una Menos e un atteggiamento acritico nei confronti della coalizione kirchnerista rischia di indebolire il movimento quando guiderà il governo a partire dal 2020[23]. Un ridimensionamento dei partiti verso la causa femminista è già stato visibile nel minore investimento e partecipazione nelle assemblee e numericamente per l’ultima manifestazione del 3 giugno a Buenos Aires, dal momento che erano impegnati nella campagna elettorale delle primarie dell’agosto 2019. Le elezioni presidenziali del 27 ottobre 2019, rappresentano quindi il banco di prova della capacità di mobilitazione e radicamento del femminismo. Dopo le elezioni potremmo capire se i partiti continueranno ad animare il movimento, se il loro interesse verso le istanze femministe non era solo motivato dalla necessità di creare un blocco politico contro Macri e se si tradurrà nella promozione di politiche quando, una volta entrati nei gangli di potere, non avranno più bisogno di utilizzare la bandiera femminista per ottenere consenso. 

3 giugno 2019, Buenos Aires: corteo Ni Una Menos contro i femminicidi – striscioni delle “Nere, indigene, razzializzate e dissidenza sessuale” e delle trans

2.2 Inclusione/esclusione

Come ho accennato precedentemente, il movimento Ni Una Menos racchiude numerosi gruppi, sindacati, collettivi, associazioni che rappresentano le istanze delle più diverse soggettività. Il Ni Una Menos è riuscito a riunire vasti settori femministi della società, includendo non solo tradizionalmente i partiti e il movimento trans e travesti, ma anche quelli antirazzisti, quelli dell’economia popolare e le sex workers, che prima operavano in isolamento ma che ad un certo punto hanno cominciato a coordinarsi attraverso assemblee congiunte e manifestazioni pubbliche di espressione di istanze comuni di giustizia sociale[24].

Il movimento Ni Una Menos nel suo complesso e nella sua rappresentazione esterna appare eterogeneo e inclusivo di tutte le diversità. Ad esempio i primi striscioni e il documento di convocazione del corteo del corteo del 3 giugno 2019 di Buenos Aires davano risalto alle identità più marginalizzate e in particolare: le indigene, le afrodiscendenti, le migranti, le trans/travesti. Le prime fila del corteo erano riservate a coloro che si definivano “nere, indigene, razzializzate (racializadas) e dissidenza sessuale” insieme anche alle trans. Il documento finale generato dall’assemblea di Buenos Aires, oltre a focalizzarsi sul diritto all’aborto, sulla violenza di genere, economica, istituzionale e sulla giustizia patriarcale lascia ampio spazio alle rivendicazioni delle afrodiscendenti, delle migranti, delle indigene, delle trans e travesti, delle grasse e delle intersex[25]. Di fatto la presenza di queste molteplici identità spicca in maniera preponderante nell’elaborazione politica del movimento e nella sua natura così come rappresentata verso l’esterno. Nelle assemblee di Buenos Aires le iniziali proposte di produrre un documento di lancio della manifestazione sintetico e incisivo ha dovuto fare i conti con l’ampia eterogeneità del movimento, l’esigenza di dare risalto a ciascuna componente e la conseguente importanza di nominare tutte le differenze; appariva chiaramente la necessità di non appiattire il movimento in una breve sintesi di rivendicazioni, questa non avrebbe potuto far emergere le sfumature e posizionamenti di ciascuna categoria di identità che voleva pronunciarsi sulle tematiche che le riguardavano senza essere sovrascritte o riassunte in altre istanze. Il risultato è stato un documento di cinque pagine dove ogni realtà è riuscita ad avere uno spazio.

La diversità, inclusività e eterogeneità del movimento e la sua proiezione esterna non sono però scontate; queste emergono come forza dirompente contro tutte le marginalizzazioni e allo stesso modo sfondano le barriere di esclusione interne al movimento; è il risultato di una contrattazione continua non sempre facile da parte di gruppi che possono definirsi ‘minoritari’ numericamente ma che hanno il coraggio di mettere continuamente in evidenza le contraddizioni del movimento femminista e le insidie del patriarcato agite attraverso le dinamiche decisionali e le reti di relazioni. Queste componenti, pur riconoscendo e criticando alcune tendenze egemoniche fra le compagne di altri collettivi/associazioni, non si dissociano, non si stancano di fare parte del movimento, generano la sua forza e arrivano addirittura a diventarne il simbolo. Le indigene, le afrodiscendenti, le migranti, le trans/travesti rivendicano un maggiore ruolo nella società e nel movimento femminista contro ogni tentativo di invisibilizzazione delle loro lotte. Queste fanno sentire la loro voce all’interno delle assemblee per spronare una maggiore partecipazione e coinvolgimento da parte del movimento tutto quando sono loro stesse ad organizzare manifestazioni contro il razzismo o contro il femminicidio trans e travesti; esigono maggiore solidarietà da parte delle compagne quando si manifestano alcuni atteggiamenti discriminatori e razzisti, a volte violenti e escludenti contro di loro, messi in atto durante iniziative pubbliche da parte delle radicali[26] (così definite alcune frange ‘femministe’ abolizioniste o di ispirazione trotzisca). Le indigene in particolare richiedono che venga conferita una maggiore visibilità da parte del movimento femminista al genocidio delle popolazioni indigene e – come atto simbolico per aprire uno spazio all’interno del movimento alle soggettività non bianche – hanno spinto per cambiare il nome dell’annuale Incontro Nazionale delle Donne (che si è tenuto a La Plata lo scorso 11-13 ottobre) in Incontro Plurinazionale delle Donne; il cambio di nome avrebbe il fine di risultare più inclusivo di tutte le nazionalità presenti in Argentina (e dunque non solo delle popolazioni discendenti di immigrati europei e dei colonizzatori ma anche delle popolazioni native, afro-discendenti e migranti). Le partecipanti della Commissione Organizzatrice dell’incontro ha legami forti con i partiti e spesso soccombono ai loro dettami; l’incontro nazionale delle donne rappresenta un momento politico importante e si ha il timore che conferire  un maggiore peso alle istanze indigene e ad altri gruppi marginalizzati possa avere un impatto sugli equilibri nazionali e sulle agende politiche soprattutto per quei partiti che aspirano a far parte della coalizione di governo e in particolare nel frangente pre-elettorale in cui è avvenuto l’incontro[27]. Si è generato quindi un paradosso: la Commissione Organizzativa ha continuato a chiamare l’incontro “nazionale” e ha utilizzato questo nome nei canali di comunicazione ufficiali; tutto il resto del movimento ha promosso, nominato e convocato questo evento come “plurinazionale” e questa chiamata ha raggiunto un seguito mediatico maggiore rispetto ai canali ufficiali, segno anche della forza dirompente dei gruppi marginalizzati a cui accennavo prima.

La pluralità e eterogeneità del movimento si riflette anche in merito all’impossibilità di poter prendere posizioni comuni riguardo ad alcune questioni critiche che lo dividono. Come anche in Italia, uno dei maggiori motivi di tensione all’interno di Ni Una Menos è il dibattito abolizionismo vs sex work. Qui ci troviamo di fronte a realtà di lotta organizzate che trovano una difficile convivenza e scontri di interesse che si manifestano in ambito assembleare: da una parte ci sono il fronte antiabolizionista – che spesso assume toni violenti – e le madri, amiche, sorelle di quelle giovani che dopo essersi recate ad un colloquio di lavoro o ad una serata con gli amici spariscono nel nulla,  sequestrate e obbligate a prostituirsi in un paese in cui la tratta, soprattutto delle bianche, assume delle dimensioni notevoli anche a causa della connivenza della polizia; dall’altra parte ci sono le sex workers che rivendicano l’autonomia sul proprio corpo, vogliono utilizzarlo come strumento di lavoro senza cadere nelle reti di sfruttamento e hanno creato le proprie cooperative per sfuggire dal controllo dei papponi e per autogestirsi. Almeno in Buenos Aires si è giunti ad un accordo, anche se non sempre privo di frizioni, che la lotta alla tratta e l’autodeterminazione delle sex workers non sono necessariamente due posizioni inconciliabili – soprattutto se unite da una decisa denuncia contro le reti criminali di sfruttamento – e che non è obbligatorio raggiungere una posizione comune su tutto, praticamente un accordo sul disaccordo.

Abbiamo visto quindi che il movimento riesce a includere soggettività marginalizzate e contemplare posizioni politiche divergenti. Una constituency così ampia tuttavia ha la necessità di delimitare i suoi margini esterni producendo inevitabilmente esclusione e sovrarappresentazione di alcune categorie. Gli uomini cis non sono invitati a partecipare nè alle assemblee (dalle quali vengono cacciati) nè allo sciopero femminista (mentre sì al corteo del 3 giugno). Questo approccio serve per creare spazi safe per le donne dove poter partecipare e esprimersi liberamente fuori da dinamiche patriarcali e di potere tipicamente maschili (immaginiamoci se gli uomini dei partiti partecipassero alle assemblee!); questo comporta tuttavia una esclusione di fatto degli uomini trans costretti a giustificare tutte le volte la loro presenza quando desiderano partecipare alle assemblee con un conseguente rischio di invibilizzazione delle loro istanze.

3 giugno 2019, Buenos Aires: alcune trans che sorreggono le lettere della scritta “Ni Una Trans Menos”

2.3 Organizzazione del movimento

Venendo dalla realtà italiana dove ci sono dei nodi territoriali che si coordinano fra di loro e dove vengono prese decisioni tramite assemblee nazionali, mi aspettavo una situazione similare trovando invece che il movimento Ni Una Menos è fluido e poco strutturato a livello organizzativo.

Non ci sono assemblee Ni Una Menos in ciascuna città o provincia, a differenza invece della campagna per l’aborto (Campaña Nacional por el Derecho al Aborto Legal, Seguro y Gratuito) che è capillare e disseminata in numerosissime città argentine. Le assemblee Ni Una Menos si sono istituite soprattutto nei centri più grandi come Buenos Aires, Rosario e Cordoba, non tutte operano attraverso assemblee regolari e alcune vengono convocate solo quando si tratta di preparare le manifestazioni più importanti a livello nazionale. Ogni assemblea, mantenendo gli appuntamenti nazionali comuni (8 marzo, 3 giugno, 25 novembre), lavora autonomamente e indipendentemente dalle altre producendo i propri comunicati e documenti politici e organizzando le iniziative locali di lotta.

Non esiste quindi un coordinamento a livello nazionale fra tutte le assemblee Ni Una Menos. Chiaramente al loro interno le varie componenti (singoli partiti, sindacati, associazioni presenti a livello nazionale così come il collettivo Ni Una Menos) si raccordano e riportano le loro posizioni nelle assemblee locali di Ni Una Menos, tuttavia non esistono assemblee nazionali dell’intero movimento dove si concordano strategie e si definiscono posizionamenti politici comuni. A unire tutte le realtà femministe è invece l’Incontro Nazionale delle Donne – ora ribattezzato delle più “plurinazionale” -, importante luogo di scambio dove confluiscono anche quelle realtà che non sono necessariamente attive all’interno del Ni Una Menos. Questo incontro annuale, anche se rappresenta un significativo momento di confronto fra le varie realtà femministe di tutta Argentina, non ne rappresenta un vero coordinamento ma piuttosto un luogo di condivisione, auto-formazione, di lancio di proposte e tessitura di alleanze e relazioni.

Quindi possiamo dedurre che Ni una Menos in Argentina costituisce una realtà poco strutturata e in divenire, che non si dà una struttura organizzativa ma che utilizza come stumenti privilegiati quelli auto-organizzati e corali ad esempio le manifestazioni pubbliche nelle piazze e nelle strade e tutte le altre iniziative organizzate dal basso. Il Ni Una Menos può essere definito un movimento spontaneo le cui componenti non interagiscono in maniera concertata e che trovano espressione nei contesti pubblici di presa di parola e manifestazioni di piazza. Si pensi ad esempio alle associazioni di quartiere e di base, alcuni sindacati e le tante realtà che si mobilitano autonomamente dalle assemblee di Ni Una Menos.

Tuttavia, il rischio della mancanza di un coordinamento è che l’agenda nazionale venga definita da Buenos Aires in base alle esigenze qui emerse invisibilizzando quello che accade nelle periferie. Le tensioni centro – periferia emergono rispetto all’egemonia di Buenos Aires verso gli altri territori: c’è un pò la sensazione da parte delle assemblee fuori dalla capitale che le femministe di Buenos Aires si ergano a rappresentanti del movimento nazionale. Non esistendo dei canali di comunicazione ufficiali nazionali del movimento, di fatto i comunicati, documenti e istanze prodotte dall’assemblea Ni Una Menos di Buenos Aires o del Collettivo Ni Una Menos vengono generalmente presentati dalla stampa nazionale e internazionale come espressione dell’intero movimento anche se non sono concordati con le assemblee di altri territori, che a loro volta ne producono i propri[28].

22 maggio 2019, Buenos Aires: Assemblea di preparazione del corteo Ni Una Menos contro i femminicidi

Conclusioni

Prendendo come asse di analisi il tema della sicurezza/insicurezza possiamo concludere che, da un lato il Ni Una Menos nasce come risposta alla compressione sociale e alle insicurezze generate dalle politiche repressive e neoliberali del governo Macri; dall’altro si può evincere che il movimento ha agito un ruolo determinante nel produrre reti di protezione e sicurezza per le donne in termini di un forte radicamento, capillarità e impatto nella società, di una maggiore coscienza collettiva sulla violenza di genere e di un’accresciuta attenzione delle istituzioni. Le reti femministe hanno sperimentato nuove modalità di relazionarsi, di fare commercio, di creare mondi possibili di solidarietà e mutuo aiuto, hanno incoraggiato le donne a prendere forza, uscire dall’isolamento e denunciare pubblicamente le violenze che stavano vivendo nelle loro vite quotidiane. Il femminismo è riuscito ad attraversare e influenzare alcuni luoghi di potere come i media e i partiti, e per questo il dibattito è entrato nelle istituzioni fino a dentro le camere da letto.

Tuttavia, questi processi non hanno coinvolto tutti i settori della società e in particolare le periferie del paese dove certe riflessioni, prese di parola e iniziative non sono ancora diffuse. Il cambiamento della società è avvenuto quindi a diverse velocità, riguardando in misura inferiore anche le istanze delle minoranze che caratterizzano il movimento ma che di fatto non riescono ancora a sfondare il tetto di cristallo dovuto alla mancata rappresentatività nei luoghi di potere e di influenza. Se si è riusciti a smuovere le coscienze delle istituzioni, dei partiti e di altri organismi sulle tematiche di genere, e sulla violenza sulle donne in particolare, un’uguale attenzione non è stata rivolta alle popolazioni indigene[29], alle migranti[30], alle afrodiscendenti[31], alle trans[32], alle prostitute e sex workers[33], la cui situazione non è migliorata o è andata progressivamente peggiorando. Il potere di trasformazione del movimento potrà quindi essere misurato nella capacità intersecare le lotte – non solo di genere, ma anche di classe, provenienza e antirazziste– e di riuscire a dare spazio alle identità marginalizzate, portare le loro istanze nei luoghi dove vengono prese le decisioni, determinare un cambiamento in positivo delle loro vite e contribuire ad abbattere – oltre al sessismo – anche il razzismo e classismo interiorizzato in alcuni strati della società e delle istituzioni.

Inoltre, ho avuto l’impressione che anche se il movimento ha fornito la possibilità a molte donne di aprirsi, parlare e denunciare le violenze che stavano vivendo, questo non abbia contaminato sufficientemente l’altra metà del mondo, gli uomini. Il movimento essendo separatista si è rivolto principalmente alle donne, ha creato reti e generato le riflessioni più profonde dentro il mondo femminile, ha aumentato il livello del conflitto con gli uomini senza veramente cercarne al suo interno gli alleati. Un esempio è quello dei partiti dove militano tante femministe senza essere riuscite a contaminarne le agende e scalfirne le dinamiche di potere interne, a volte conformandosi, a volte facendosi sopraffare dall’impotenza. Il potere e l’orizzontalità rappresentano una grande sfida del movimento, un tema ancora non sufficientemente affrontato al suo interno forse perchè è fortemente influenzato dai partiti, che da una parte si fanno promotori delle politiche di genere dall’altra ricacciano qualsiasi tendenza verso l’accoglimento delle istanze dei gruppi più marginalizzati. La capacità rivoluzionaria del movimento verso una società più femminista, inclusive e sicura per tutt* si potrà quindi veramente stimare in termini di ribaltamento delle dinamiche interne di influenza, di accesso ai canali politici e di informazione, di tensioni centro-periferia, di apertura alle classi marginalizzate ma anche di dialogo verso il mondo maschile col quale diventare in grado di contrattare una condivisione e trasformazione del potere da loro sempre e ancora detenuto…. ed infine di contaminazione della società di contenuti transfemministi che siano anche e davvero antisessisti, anticapitalisti, anticlassisti e antirazzisti.

3 giugno 2019, Buenos Aires: striscione del movimento di donne indigene “Senza di noi, non c’e paese”




[1] Della coalizione politica di destra neo-liberista Cambiemos e presidente in carica dal 2015 al 2019.

[2] https://www.perfil.com/noticias/sociedad/como-surgio-movimiento-ni-una-menos-2015.phtml

[3] Figlie e nipoti di indigeni e contadini.

[4] Si crearono numerosi gruppi con approcci diversi sull’accompagnamento all’aborto prendendo spunto dall’esperienza delle Socorristas en Red già attive dal 2010.

[5] Un caso importante è la città di Cordoba, dove esistono numerose esperienze di auto-organizzazione femministe per costruire modi di fare mercato più sostenibili e per aiutarsi reciprocamente nella promozione dei propri prodotti e professioni. Un esempio è il gruppo Feministas Trabajando che mette in rete e promuove le autoproduzioni di donne, trans e non binar*. Lo stesso gruppo organizza la Feria Feministas Trabajando, giunta alla 20esima edizione, un mercato mensile per sostenere l’autoproduzione (artigianato, cibo e altro) dove oltre a vendere si può barattare i propri prodotti; questo rappresenta un luogo di incontro dove passare il pomeriggio e dove si svolgono laboratori, concerti e performance femministe. Altra esperienza è Motores en los Pies, una cooperativa transfemminista di trasporto in bici nata per facilitare la vendita di prodotti di autoproduzioni e attività commerciali di femministe e per sottrarsi allo sfruttamento delle imprese come Glovo ecc. Queste sono solo due esempi insieme ad una lunga lista di realtà di promozione di attività commerciali: il mercato gastronomico femminista, il baratto femminista, reti femministe per cercare stanze in affitto, gruppi di tatuatrici, muratrici, imbianchine e di artiste di vario tipo (circensi, attrici, ballerine di tango ecc).

[6] http://latfem.org/a-cuatro-anos-de-ni-una-menos-avances-y-retrocesos-a-nivel-nacional-caba-cordoba-y-rosario/ Il maggior numero di contatti è avvenuto durante la giornata del corteo contro I femminicidi del 3 giugno 2015 e nei giorni immediatamente successivi. Nel solo mese di giugno 2015 si sono registrate 4.600 chiamate per casi di violenza di genere rispetto a 3.034 chiamate del mese precedente. https://www.argentina.gob.ar/sites/default/files/consejo_nacional_de_mujeres_plan_nacional_de_accion_contra_violencia_genero_2017_2019.pdf

[7] https://elpais.com/internacional/2018/03/08/argentina/1520524596_177942.html

[8] Per un’analisi dettagliata si veda: http://latfem.org/a-cuatro-anos-de-ni-una-menos-avances-y-retrocesos-a-nivel-nacional-caba-cordoba-y-rosario/

[9] Secondo i dati dell’Osservatorio sui Femmicidi “Adriana Marisel Zambrano” dal 2008 al 2015 sono state assassinate 2094 donne  in relazione a casi di violenza sessista. https://www.argentina.gob.ar/sites/default/files/consejo_nacional_de_mujeres_plan_nacional_de_accion_contra_violencia_genero_2017_2019.pdf. Si registra un femminicidio ogni 34 ore. http://libresdelsur.org.ar/noticias/un-femicidio-cada-34-horas-relevamiento-del-observatorio-mumala/

[10] Ad esempio all’incontro del 2018 hanno partecipato 65.000 donne (http://encuentrodemujeres.com.ar/historia-del-encuentro/) e ben 200.000 nel 2019 (https://www.tucumanalas7.com.ar/nacional/2019/10/12/con-mas-de-200-mil-asistentes-hoy-inicia-el-encuentro-nacional-de-mujeres-187215.html?fbclid=IwAR2-CtG1FYX2L0Hl6VUz8mpmHxw1pW5CotDd-jB6Mcy-tP0Nfz2mtFGFpyI)

[11] Magui Bellotti (2018) Memorias, genealogies, historias del movimiento feminist y de mujeres Movidas por el deseo: genealogias, recorridos y luchas en torno al 8M, a cura di Alfonso, Lozano e Castelli, Buenos Aires: El Colectivo.

[12] https://latfem.org/2-anos-del-primer-paro-macri-paro-nacional-mujeres/

[13] Eclatante fu il caso della docente Corina de Bonis che organizzò mense popolari per strada (ollas populares) per permettere ai bambini di poter mangiare in seguito alla chiusura della loro scuola. Corina fu sequestrata e torturata dalla polizia che le incisero sul corpo con un punteruolo “no más ollas”. Vedi Cavallero e Gago, Una lectura feminista de la deuda, Buenos Aires: Fundación Rosa Luxemburgo, 2019.

[14] Milagro Sala è un’attivista indigena del nord dell’Argentina dell’organizzazione Tupac Amaru, un gruppo di contadini e poveri senza terra per i quali riuscì a trovare fondi pubblici per costruire complessi residenziali dotati di servizi, è attualmente incarcerata con accuse di corruzione relative a questi fatti. https://www.agoravox.it/Chi-e-Milagro-Sala-la-donna-che-ha.html

[15] 1303 persone sono state uccise dalla polizia negli ultimi tre anni, erano principalmente minorenni delle periferie e delle favelas argentine. https://correpi.lahaine.org/; https://drive.google.com/drive/folders/1lWq1b2s8jocRvsre9TjNcOfUhIJKMcfZ vedi anche Basta grilletti facili di Stato. Esplode la rabbia in Argentina, Serena Chiodo, 28.05.2019.

[16] https://latfem.org/2-anos-del-primer-paro-macri-paro-nacional-mujeres/

[17] Il kirchnerismo è una corrente politica di ispirazione peronista guidata dai precedenti presidenti Néstor Carlos Kirchner (dal 2003 al 2007) e da sua moglie Cristina Fernández de Kirchner (dal 2007 al 2015).

[18] Autrici varie, #NiUnaMenos. Vivxs nos queremos. Argentina: Milena Caserola, 2015.

[19] La ex presidente Cristina Kirchner nei suoi dodici anni di governo ha portato avanti riforme cruciali a favore delle classi sociali più svantaggiate come ad esempio introducendo la gratuità dell’assistenza sanitaria e dell’educazione fino all’università e ha promosso alcune leggi importanti per il movimento femminista come la Legge sul matrimonio ugualitario e la Legge sull’identità di genere. Tuttavia, ha sempre avuto una posizione ambivalente riguardo all’aborto, mai veramente condannandolo o promovuendo la sua legalizzazione in quanto molto vicina ai gruppi cattolici e cristiani pro-vita e nel tentativo di non perdere il consenso di un elettorato diviso sulla questione.

[20] In particular modo alcuni governatori si sono resi responsabili di non aver fatto niente o impedito l’aborto di giovani ragazze e di aver applicato nelle loro province tagli a servizi importanti – incidendo soprattutto sulle classi più povere- in ossequio ai programmi di ristrutturazione economica imposte dal governo Macri.

[21] http://agenciapresentes.org/wp-content/uploads/2019/06/Pliego-Final-3J-2019.pdf

[22] Questo recitava “Non una di Meno per le violenze sessiste, economiche, razziste, classiste verso le identità vulnerabilizzate. Aborto legale subito. Abbasso l’aggiustamento di Macri, del FMI e i governatori”.

[23] Il 27 ottobre 2019 la coalizione kirchnerista ha vinto le elezioni sconfiggendo il presidente uscente Mauricio Macri; il nuovo governo sarà guidato dal nuovo residente Alberto Fernández, stretto collaboratore di Cristina Kirchner.

[24] https://latfem.org/2-anos-del-primer-paro-macri-paro-nacional-mujeres/

[25] http://agenciapresentes.org/wp-content/uploads/2019/06/Pliego-Final-3J-2019.pdf

[26] Ci sono stati in passato tentativi da parte di gruppi circoscritti di allontanare di afro-discendenti dallo striscione di apertura o episodi di blocchi per impedire che donne trans di salire sul palco per fare interventi.

[27] L’incontro nazionale/plurinazionale delle donne del 2019 è avvenuto appena due settimane prima delle elezioni presidenziali.

[28] Ci sono anche degli aspetti organizzativi –che ho pouto notare almeno per quanto riguarda l’assemblea di Buenos Aires per l’organizzazione del corteo del 3 giugno – che non facilitano la piena inclusione e partecipazione. Ad esempio le convocazioni delle assemblee generali sono pubblicizzate con pochissimi giorni di preavviso attraverso canali di diffusione che non sempre riescono a raggiungere tutte le realtà potenzialmente interessate. Inoltre nel caso di Buenos Aires, l’organizzazione delle assemblee in aree centrali della città non permetteva la partecipazione di coloro che vivono nelle aree periferiche e della provincia.

[29] L’industria estrattivista sta sempre più confiscando le terre delle popolazioni contadine e indigene; i mapuche vengono inoltre rappresentati dal governo come nemici dello stato e terroristi da reprimere e sconfiggere. https://argentina.indymedia.org/2019/10/24/que-hizo-el-macrismo-con-los-pueblos-originarios/

[30] Il tema del fenomeno migratorio ha subito un cambio di paradigma durante il governo Macri, da uno precedentemente fondato sui diritti umani ad uno che si incardina sulla protezione della sicurezza nazionale e sul controllo delle frontiere. La politica migratoria ha quindi assunto caratteri repressivi con un aumento vertigionoso delle espulsioni e deportazioni e maggiori restrizioni rispetto al permesso di soggiornare sul territorio argentino. https://elpais.com/elpais/2017/07/24/contrapuntos/1500861895_103072.html; https://www.infobae.com/politica/2018/10/28/el-plan-de-macri-para-endurecer-la-politica-contra-los-inmigrantes-ilegales-en-la-argentina/; https://www.marcha.org.ar/ni-una-migrante-menos-vivas-libres-y-sin-racismo-nos-queremos/

[31] Le popolazioni afro-discendenti non sono generalmente considerate parte della società e della storia argentina. https://www.cultura.gob.ar/por-que-el-8-de-noviembre-es-el-dia-nacional-de-los-afroargentinos-y-de-la-cultura-afro_5054/. Il governo Macri ha diffuso una visione profondamente classista e razzista della società https://www.eldesconcierto.cl/2019/02/24/racismo-y-clasismo-propaganda-macrista-asegura-que-los-blancos-y-ricos-sostienen-la-economia-de-los-pobres-y-negros/

[32] Le leggi approvate in materia di identità di genere hanno avuto un’applicazione insoddisfacente al fine di modificare positivamente la condizione di vita delle trans. https://sicura.home.blog/2019/06/30/la-lotta-delle-trans-e-travesti-in-argentina-militare-unite-tutti-i-giorni-nelle-istituzioni-e-nelle-strade/

[33] Le forze di polizia esercitano violenza e repressione contro le prostitute con episodi di violenza fisica, allontamenti forzati e estorsioni. https://www.ammar.org.ar/IMG/pdf/informe_violencia_institucional_ammar_argentina-2.pdf La prostituzione è tuttora criminalizzata in numerosissime provincie argentine http://www.ammar.org.ar/Un-paso-mas-para-la.html; il 91% degli autori di femminicidi contro prostitute/sex workers sono rimasti impuniti http://www.ammar.org.ar/Justicia-por-Maria-Corvalan.html



La lotta delle trans e travesti in Argentina: militare unite, tutti i giorni nelle istituzioni e nelle strade

Intervista con Daniela Candelaria Sajama, referente dell’Asociación de Travestis Transexuales y Transgéneros de Argentina (A.T.T.T.A) della città di Cordoba, 9 giugno 2019

Corteo Basta de Genocidio Trans/Travesti, 28 giugno 2019, Buenos Aires. Photo credit: Serena Chiodo

Il 28 giugno si è tenuto in diverse città argentine la manifestazione Basta Femminicidi Travesti e Trans. Il corteo aveva il fine di visibilizzare quello che viene definito il genocidio travesti e trans e per chiedere giustizia per le compagne violentate dal sistema capitalista e patriarcale. Le persone trans e travesti vivono un’esclusione su più livelli, quello sociale, educativo, lavorativo e sanitario; questo, insieme alle condizioni di salute generalmente più precarie, concorre ad un’aspettativa di vita media di circa 35 anni.

Anche se l’accesso all’istruzione (fino all’università) è libera e gratuita in Argentina, le persone trans e travesti lasciano presto i loro percorsi educativi a causa di frequenti episodi di discriminazione; quindi non riescono in molte a raggiungere un livello di formazione adeguato per accedere alle carriere professionali. Le trans e travesti sono particolarmente vulnerabili al femminicidio perchè la mancanza di opportunità lavorative le spinge spesso sulla strada della prostituzione e conseguentemente alla violenza dei clienti e soprattutto della polizia con frequenti episodi di tortura ed estorsione.

Il movimento trans e travesti ha una storia decennale di organizzazione e resistenza e ha rappresentato un pilastro fondamentale per il femminismo argentino oltre ad essere sempre in prima linea nelle lotte femministe, come ad esempio nella campagna per l’aborto. Il movimento comprende numerose organizzazioni disseminate su tutto il territorio argentino ed è impegnato nella visibilizzazione della discriminazione e delle violenze a cui sono sottoposte le persone trans e travesti. Oltre alla sensibilizzazione a livello sociale, per promuovere il benessere e la sicurezza delle persone trans e travesti, la società civile trans/travesti è stata promotrice di alcune iniziative legislative importanti per il riconoscimento della loro soggettività giuridica, per l’assistenza sanitaria e per l’inserimento lavorativo. La Legge di Identità di Genere, approvata nel 2012, permette il cambio di sesso nei registri di stato civile (senza necessariamente passare attraverso la chirurgia) e la possibilità di accedere al servizio sanitario pubblico in maniera gratuita per trattamenti ormonali e per sottoporsi all’intervento chirurgico. Il movimento trans/travesti è stato anche promotore a livello locale (ad esempio a Buenos Aires) di alcune leggi per introdurre delle quote lavorative nel settore pubblico e privato. Nonostante la legislazione argentina sulla tematica trans/travesti sia considerata la piú progressista al mondo, questa presenta ancora delle problematiche significative nella sua applicazione. Il lavoro delle associazioni trans/travesti nei vari territori è cruciale per assicurare il rispetto delle leggi, per promuovere un maggiore benessere e qualità di vita e per creare un cordone di  sicurezza contro le violenze a cui sono soggette quotidianamente.

Di questo e delle reti di solidarietà femminista, in vista della manifestazione Basta Femminicidi Travesti e Trans, ne ho parlato con Daniela Candelaria Sajama, referente della città di Cordoba dell’ Asociación de Travestis Transexuales y Transgéneros de Argentina (A.T.T.T.A).

Quali sono le sfide più grandi per il benessere e la sicurezza delle donne trans e travesti in Argentina?

La sfida più grande che noi abbiamo è l’inclusione in tutti i sensi, sanitaria, educativa, sociale; è necessario migliorare la qualità di vita delle nostre compagne e generare spazi che siano liberi dalla violenza e discriminazione nel settore pubblico e privato, negli ospedali, nelle scuole, nelle istituzioni e in ambiti lavorativi pubblici, privati, autogestiti ecc.. La nostra sfida è questa: integrarsi in una società dove possiamo sviluppare il nostro progetto di vita e aumentare la nostra aspettativa di vita che per una persona trans in Argentina è di soli 35 anni. Solo a partire dall’inizio di questo anno sono già morte 34 ragazze trans vittime di violenza di stato, di femminicidio e malattie. 

Che reti di solidarietà e strategie la sua associazione ha costruito per promuovere la sicurezza e benessere delle persone trans e travesti nella sua città?

Siamo un gruppo di donne e uomini trans che lottano per migliorare la qualità di vita e per promuovere il rispetto dei diritti delle persone trans. Fra le azioni che realizziamo ci sono quelle di sensibilizzazione attraverso l’organizzazione di dibattiti, tavole rotonde e laboratori per diffondere la conoscenza della Legge di Identità di Genere 26.743, per promuovere i diritti umani delle persone trans e luoghi liberi di discriminazione e violenze contro la comunità LGBTI e per parlare di masculinità trans. Questi sono svolti all’interno di varie istituzioni educative, di corsi nell’ambito dei diritti umani, nelle università, nell’accademia di polizia e si rivolgono anche alle forze di sicurezza della provincia. Siamo parte della commissione organizzatrice della manifestazione contro il femminicidio travesti e trans del  28 giugno e organizziamo anche eventi che valorizzano e ricordano le date importanti per la nostra comunità in Argentina. Ad esempio il 18 marzo è il giorno della promozione dei diritti delle persone trans, il 1 dicembre è il giorno della lotta internazionale contro l’HIV, il 25 giugno è l’anniversario della fondazione di ATTTA, la nostra organizzazione.  

Stiamo attualmente lavorando per un rilevamento della popolazione trans nella città di Cordoba. Accompagnamo le persone trans che sono state vittime di violenza istituzionale di discriminazione o esclusione; abbiamo fatto accompagnamenti a giovani e adulti per fare il cambio nel registro civile e nella carta di identità secondo la Legge di Identità di Genere. Stiamo seguendo il caso di Azul Montor, una ragazza trans uccisa per la quale stiamo chiedendo giustizia, questo anno ci sarà il giudizio, fu un femminicidio trans. 

Abbiamo anche svolto alcune azioni per introdurre delle quote all’interno dei luoghi lavorativi e nelle istituzioni educative. Abbiamo presentato il progetto di legge per le quote lavorative trans all’università, a livello cittadino, al comune e alla provincia di Cordoba; quello proposto al comune di Bell Ville è stato approvato. Abbiamo garantito una quota per i corsi professionali offerti dall’Università di Cordoba. Abbiamo siglato un accordo col Ministero dell’Educazione affinchè ragazzi e ragazze trans possano partecipare a percorsi educativi con una prospettiva di genere. Facilitiamo l’inclusione lavorativa delle compagne in situazione di vulnerabilità e stipuliamo accordi con imprese; questi ci hanno permesso per esempio l’anno scorso di inserire tre ragazze trans che stanno attualmente lavorando con un contratto regolare che garantisce tutti i diritti lavorativi. Organizziamo riunioni con assessori e esponenti politici, professori, personale accademico e organizzazioni sociali per tessere la rete per l’inclusione lavorativa e sociale delle trans.

Realizziamo anche interventi nell’ambito della salute e prevenzione. Gestiamo un consultorio inclusivo nell’ospedale Principe de Asturias di Cordoba e in Villa Maria (in provincia di Cordoba) e ne stiamo inaugurando uno nuovo. Realizziamo prevenzione nell’area del sex work, fornendo informazioni alle compagne, distribuendo preservativi e cerchiamo di capire come si trovano nel loro luogo di lavoro.

Quali sono le sfide per l’applicazione della Ley de Identidad de Genero (Legge di Identità di genere)?

La Legge di Identità di Genere è molto buona però se non si attua, non serve. Se non sono le organizzazioni sociali che spingono affinchè la legge si applichi nelle strutture, negli ospedali e nelle altre istituzioni, se non ci sono persone che si recano in questi presidi, presentano lamentele, visibilizzano la legge e interpellano le istituzioni, la legge non viene rispettata. Perciò è molto importante il ruolo femminista delle persone trans nelle organizzazione sociali perchè questo cambi. Nell’ospedale Rawson, che è un ospedale di riferimento, molte compagne sono registrate nel database col nome precedente, questo è in violazione della Legge di Identità di Genere. Per quanto riguarda la salute integrale, in provincia non abbiamo le risorse per le terapie ormonali, si contano sulle dita di una mano i dottori che le somministrano, per non parlare della chirurgia di cambio del sesso, nè della vasectomia e falloplastica. Sono veramente poche le persone nelle varie provincie che hanno potuto ricevere questi trattamenti. Lo stesso vale per la fornitura di silicone, non ci sono dottori che hanno in dotazione il silicone negli ospedali pubblici. Questa è una violazione della salute integrale delle persone trans. Se non militiamo la Legge di Identità di Genere nelle strade e nelle istituzioni, questa rimane lettera morta.

E per quanto riguarda la Ley de Cupo Laboral Trans (Legge per le quote lavorative trans)?

Esiste un progetto di legge di quote lavorative trans però lo stato provinciale di Cordoba non vuole approvarlo, questo è un debito storico che hanno con noi. L’unico comune che l’ha passato nel territorio di Cordoba è stato Bell Ville; successivamente non ci sono stati ulteriori progressi nè nell’università, nè nel comune, nè nella provincia. Quindi la maggior parte delle ragazze trans continua a prostituirsi perchè non ci sono inserimenti lavorativi per occupare altri spazi che non siano le strade. È come se avessimo un tetto di cristallo perchè non possiamo avanzare oltre il lavoro sessuale, non possiamo aspirare ad altro per la barriera sociale della discriminazione e esclusione. Noi vogliamo che ci siano più opportunità per le nostre compagne e che si visibilizzi il genocidio trans perchè ci stanno uccidendo tutte. A partire da quest’anno sono già morte 34 donne trans, ogni 96 ore muore una trans, e noi siamo una minoranza sessuale, quindi questo è ancora più grave. L’odio verso di noi è per la nostra identità e i responsabili di questo genocidio sono gli assassini, la società e lo stato. Un concetto di cui generalmente parliamo è la ‘travestificazione della povertà’ perchè le donne trans sono sempre in una situazione di povertà, di marginalità, di prostituzione, di mancanza di accesso alla salute. Se non ci fosse esclusione e discriminazione, si approverebbero molte leggi, ci sarebbero molte trans lavorando, potrebbero accedere liberamente all’ospedale o alle scuole, vivrebbero un’altra realtà ma purtroppo questa realtà non esiste.

Quale è stata l’azione di maggiore successo che ha avuto la sua organizzazione?

Tutte, tutto è importante e si accumula, dal più piccolo al più grande. Quello che non so se ha avuto più successo ma sicuramente è stato più importante, per lo meno dal mio punto di vista, è che molte compagne e compagni hanno potuto crescere insieme, sviluppare i loro progetti, studiare, accedere ad un lavoro grazie all’associazione, hanno potuto alzare la loro voce e farsi ascoltare, hanno curato di più la loro salute e questo ha prodotto un cambio qualitativo nella loro vita. Nel nostro cammino come organizzazione ovviamente abbiamo commesso errori e ci sono stati fallimenti, abbiamo imparato insieme dagli errori, dai successi e dalle frustrazioni. I politici hanno sempre promesso tante cose e non ne hanno mantenuta quasi nessuna. Da tanti anni lavoriamo sull’inclusione lavorativa trans e sui relativi disegni di legge, non abbiamo ottenuto che vengano discussi però continuamo a insistere, non ci diamo per vinte, siamo donne sopravvissute, la maggioranza di noi ha subito situazioni di violenza nelle strade e quindi siamo capaci di andare avanti. La cosa più importante è stare unite, essere forti e sicure di sè (empoderadas) e continuare la nostra lotta.

Qual’è la relazione con altri movimenti femministi? Ricevete appoggio e solidarietà?

Mercoledì prossimo abbiamo una riunione con le donne delle altre organizzazioni trans per organizzare il corteo contro il femminicidio travesti e trans in Argentina. Rispetto al femminismo, facciamo parte dell’assemblea Ni Una Menos di Cordoba e appoggiamo l’aborto legale, sicuro e gratuito non solamente per le donne ma anche per uomini trans gestanti. Partecipiamo nella misura in cui possiamo perchè abbiamo un’agenda abbastanza nutrita e abbiamo tanti fronti aperti su cui lottare nell’educazione, nella salute, nel lavoro, negli ospedali, nei consultori, nelle università. Desideriamo che il femminismo ponga la stessa enfasi per l’aborto legale sicuro e gratuito anche per la lotta contro il femminicidio travesti e trans e per l’inclusione lavorativa trans, nella stessa misura in cui noi indossiamo il pañuelo verde e appoggiamo la campagna per l’aborto. Il supporto di fatto esiste perchè se ne parla nei manifesti del Ni Una Menos però è necessario avere piú diffusione e partecipazione affinchè si approvino le leggi e si possa raggiungere una maggiore inclusione.

orteo Basta de Genocidio Trans/Travesti, 28 giugno 2019, Buenos Aires. Photo credit: Serena Chiodo

La resistenza verde non si fermerà – Le sfide del movimento per l’aborto libero, sicuro e gratuito in Argentina


Pañuelazo del 28 maggio 2019 di fronte al Congreso de la Nacion durante la presentazione del disegno di legge

La resistenza verde non si fermerà – Le sfide del movimento per l’aborto libero, sicuro e gratuito in Argentina

Oggi, 14 giugno, ricorre un anno dall’approvazione dalla Camera dei Deputati del disegno di legge sull’aborto in Argentina. Ricorderemo la gioia della marea verde che aveva coperto le piazze del paese e la grande risonanza della Campaña Nacional por el Derecho Aborto Legal, Seguro y Gratuito che per la prima volta era riuscita a portare la discussione sull’aborto in un dibattito parlamentare. Le grandi speranze suscitate da questo evento furono vanificate dal voto negativo da parte del Senato il 9 agosto successivo con uno scarto di soli 5 voti; non erano servite le grandi mobilitazioni e gli ammonimenti che se il progetto di legge non fosse stato approvato allora, sarebbe stato riproposto in piena campagna per le elezioni presidenziali dell’ottobre 2019. Mantendo la parola, lo scorso 28 maggio la Campaña ha presentato per l’ottava volta al Congreso de la Nación il Disegno di Legge per l’Interruzione Volontaria di Gravidanza (Proyecto de ley de interrupción voluntaria del embarazo (IVE). A prescindere dagli esiti parlamentari del disegno di legge, che ha ben poche possibilità di essere discusso prima delle elezioni, la Campaña potrà comunque vantare un successo in termini di capacità di riunire il consenso fra le più diverse forze politiche e di mobilitare vasti strati della popolazione e soprattutto le più giovani. La Campaña è anche il frutto di saperi accumulati sul corpo delle donne da parte dei gruppi femministi, di esperienze di autogestione e di costruzione di reti di solidarietà femminista che, in assenza di interventi efficaci da parte dello stato, stanno operando da anni per rendere l’aborto sicuro in Argentina.

Il (non) diritto all’aborto in Argentina

In Argentina non esiste una legge specifica sull’aborto, la materia è regolata dal Codice Penale del 1921 (e in particolare dall’art. 86) che prevede l’aborto solo per tre causali: rischio di vita o per la salute della gestante o nel caso che la gravidanza sia la conseguenza di una violenza sessuale. Anche nel quadro delle limitate previsioni di legge, l’accesso all’aborto per le tre causali è sempre risultato particolarmente difficile a causa dell’ostruzionismo da parte del personale sanitario obiettore e degli apparati giudiziari locali; si registravano infatti numerosi casi di diniego di autorizzazione legale della pratica e ostacoli rappresentati dalla richiesta di certificazioni attestanti l’avvenuto stupro. Questa situazione aveva costretto la Corte Suprema a intervenire nel 2012 con la Sentenza FAL (Fallo FAL) che stabiliva l’obbligo per le strutture sanitarie di esigere solamente una dichiarazione giurata sottoscritta da parte delle donne che necessitano l’aborto in seguito ad una violenza sessuale e non anche l’autorizzazione del giudice, il certificato medico attestante lo stupro, la denuncia alla polizia o comunque nessuna prova dell’avvenuto stupro, come veniva frequentemente richiesto in precedenza. Inoltre la Sentenza FAL era intervenuta sull’interpretazione della causale di salute prevista dal Codice Penale e in particolare in merito alla definizione di rischio per la salute della donna; applicando il concetto più esteso di salute integrale fornito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Sentenza FAL aveva incluso come fattori giustificanti l’aborto, oltre alla malattia fisica, anche le dimensioni  psicologica, emozionale e sociale risultanti da una gravidanza come concorrenti a causare un rischio per la salute della donna.

Anche in assenza di una legge specifica, il quadro legislativo fino a qui delineato permetterebbe già, se applicato, di accedere all’aborto nella maggior parte dei casi soprattutto in un paese dove l’accesso alla salute è gratuito e universale. Tuttavia, la sentenza FAL non ha valore vincolante e di fatto non risulta essere efficace; eclatanti sono stati alcuni casi di pre-adolescenti che avevano subito una violenza sessuale costrette a portare a termine la loro gravidanza a causa del diniego del personale medico e di una forte pressione di gruppi Pro-vita[1] – o anti-diritti (‘anti-derechos’ come sono stati rinominati più appropriatamente dal movimento femminista). La misoginia e le credenze religiose presenti nelle strutture ospedaliere e giudiziare fanno sì che si continui purtroppo ancora a morire di aborto clandestino. L’aborto rappresenta la principale causa di morte di donne gestanti; secondo le statistiche ufficiali erano 100 le morti per aborto clandestino nel 2010[2] e 43 nel 2016[3]. Tuttavia i dati non sono attendibili, le autorità non hanno interesse a pubblicare cifre reali che sono molto spesso sottostimate dal momento che molti dei decessi non vengono classificati come conseguenza di aborti clandestini. Nessun governo argentino finora, incluso quello progressista di Cristina Kirchner (particolarmente attenta ai diritti umani e al miglioramento delle condizioni delle classi più povere) si è impegnato seriamente per prevenire le numerosi morti evitabili per aborto. Così continuano a suscitare grande scalpore le notizie di casi di morti di donne per aver tentato di abortire con metodi fai da te o per essersi affidate a cliniche clandestine. Solo due giorni dopo la presentazione del progetto di legge del 28 maggio, nuovamente due casi di morti per setticemia nella provincia di Buenos Aires, una per una manovra incompleta[4] e un’altra per utilizzo del prezzemolo[5].

A morire sono soprattutto le donne delle classi sociali più povere, le più giovani e coloro che vivono fuori dai centri urbani che hanno maggiori difficoltà a ricorrere a metodi abortivi più sicuri, come ad esempio il Misoprostol. Questo medicinale è diventato facilmente reperibile negli ultimi anni nelle farmacie presentando ricetta medica, nel mercato nero o su internet. Tuttavia, il prezzo del Misoprostol è diventato sempre piú proibitivo; l’attuale governo neo-liberalista di Macri ha razionalizzato il budget destinato alle strutture sanitarie – dove è sempre più difficile reperirlo gratuitamente – e ha aumentato notevolmente il prezzo del Misoprostol fino agli attuali 5000-7000 pesos (100-150 euro) in un paese dove il salario minimo è di 250 euro. Quindi, mentre le donne che vivono nella città e che hanno un potere economico superiore riescono ad acquistare le pillole abortive, le donne dei quartieri popolari, conservatori e delle zone rurali e le adolescenti sono quelle che muoiono maggiormente perchè non sono facilmente raggiunte da questo tipo di informazione e, quando riescono ad accedervi, non ne hanno i mezzi economici per far fronte all’acquisto dei medicinali abortivi e quindi ricorrono a metodi piú economici e rischiosi.  

Realtà resistenti

In assenza di una legge e di un’efficace applicazione delle causali, alcune realtà femministe si sono da tempo auto-organizzate per reperire gli strumenti per facilitare l’accesso sicuro all’aborto. Queste associazioni hanno contribuito a rendere l’utilizzo del Misoprostol sempre più diffuso e accessibile così da determinare negli ultimi anni un cambio significativo nella condizione reale di vita delle donne. Queste realtà non sono nè clandestine nè illegali, ma operano nei limiti del contesto legislativo sopra delineato, si limitano a fornire informazioni sulle modalità di aborto sicuro in casa oppure operano attraverso le fessure legislative del Codice Penale creando la possibilità di effettuare interruzioni di gravidanza nei presidi sanitari pubblici.

Le Socorristas en Red furono le prime ad attivarsi; queste gestiscono oggi il servizio di informazione e accompagnamento all’aborto più diffuso nel paese con un numero totale di circa 40 collettive e di 450 socorristas. A costituire il nucleo originario furono alcune compagne della Revuelta, una collettiva di Neuquen, che militavano nella Campaña Nacional por el Derecho Aborto Legal, Seguro y Gratuito. Queste – ispirandosi alle esperienze italiane e francesi degli anni ‘70 e per rispondere alle frequenti richieste di informazioni su come abortire da parte delle donne che si avvicinavano alla Campaña– costituirono nel 2010 il Socorro Rosa, un servizio di informazione e accompagnamento all’interruzione di gravidanza. Inizialmente raccolsero e diffusero le informazioni sulle cliniche più affidabili dove era possibile rivolgersi con l’aiuto di alcuni medici di fiducia fino a che non è c’è stata la svolta: l’arrivo del Misoprostol. Se ne apprese il funzionamento grazie all’aiuto di associazioni internazionali come Women on Wave e fu quindi attivata una linea telefonica con base a Neuquen. Poi tramite passaparola il servizio diventò sempre piú conosciuto ed si rese necessaria una diffusione dell’accompagnamento all’aborto su tutto il territorio nazionale. Fra il 2013 e 2014 le Socorristas definirono e formalizzarono gli strumenti di informazione e comunicazione da utilizzare[6] e la metodologia di accompagnamento oltre a intessere le reti in tutto il paese. Con la loro costituzione formale le Socorristas uscirono dalla clandestinità diffondendo il loro lavoro e parlando pubblicamente di aborto. Come atto politico del loro attivismo, a partire dal 2015 le Socorristas hanno anche cominciato a pubblicare statistiche riguardanti le loro utenti. Le informazioni raccolte servono, come dichiarato dalle Socorristas, a “produrre una conoscenza concreta sull’aborto: saperi che si situano nei e dai nostri corpi” e quindi rivendicare la validità del sapere accumulato e generato da pratiche femministe; le statistiche inoltre sono di estrema importanza a causa della mancanza di dati officiali, servono per visibilizzare il fenomeno dell’aborto in Argentina (che gli ‘anti-diritti’ cercano di minimizzare) e per sfatare alcuni miti riguardanti la tipologia delle donne che abortiscono, il loro livello di religiosità, la maternità e altro.  Ad esempio, i loro dati rivelano che circa il 60% delle donne che abortiscono sono credenti e molte di loro sono già madri (quindi mettendo in discussione una presunta incompatibilità fra l’essere madri e abortire)[7].

Dal 2014 al 2018 le Socorristas hanno aiutato ad abortire circa 20 mila gestanti e il numero di utenti che vi si sono rivolte è aumentato notevolmente negli ultimi anni anche come effetto della risonanza della campagna nazionale sull’aborto. Quello che più caratterizza le Socorristas è il loro approccio empatico basato sulla sororidad, l’ascolto, l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne che vi si rivolgono e che caratterizza tutte le fasi di accompagnamento all’interruzione di gravidanza. Dopo il primo contatto telefonico, le donne vengono convocate in gruppo per un laboratorio di scambio e informazione. Lì sono invitate a presentarsi, questo serve per rimuovere il tabù intorno all’aborto, per farle capire che non sono le uniche a prendere questa decisione, a non farle sentire sole oltre a facilitare la costruzione di reti di mutuo supporto (emotivo ma anche economico per aiutare coloro in situazione di indigenza ad acquistare le pillole). Gli incontri servono anche a ridurre la paura di abortire; come mi ha raccontato una socorrista: “Molte donne hanno paura, nell’incontro vengono rassicurate, aiutate a prendere una decisione e farle sentire al sicuro. A volte le donne non dicono niente a nessuno. Le facciamo capire che anche se non hanno nessuno ci siamo noi. L’aborto si può vivere differentemente se qualcuno ti aiuta.” Le donne vengono confortate dal fatto che durante tutto il processo fino a dopo l’aborto non verranno mai lasciate sole, potranno contattare le Socorristas in qualsiasi momento. Il primo incontro serve anche demistificare l’aborto come evento particolarmente doloroso dell’esistenza di una donna; come mi ha commentato una socorrista: “Non bisogna pensare che quello che sta succedendo è terribile o drammatico, può essere anche positivo, una decisione positiva per se stesse”. La paura scompare anche attraverso un’informazione dettagliata e puntuale circa l’utilizzo e i rischi delle pillole abortive. Alle donne viene spiegato che il farmaco è sicuro ed efficace nel 97% dei casi e che l’incidenza di emorragie o complicazioni è relativamente bassa (solo il 10,8% hanno dovuto rivolgersi per questo a presidi sanitari). Vengono loro forniti tutti i dettagli per individuare i sintomi di un’eventuale emorragia – che può essere normalmente trattata in ospedale senza che il personale sanitario si accorga del ricorso al Misoprostol. Le donne vengono tranquillizzate anche riguardo all’espulsione del sacco gestazionale: questo è solo di pochi centrimetri (1-4 cm) e non è assolutamente necessario – e a volte neanche possibile – verificare l’avvenuta espulsione, invece è il corpo stesso a comunicarlo perchè successivamente il dolore comincia a calmarsi. Al primo incontro non sempre tutte le donne sono convinte di abortire; da parte dell’operatrici non viene esercitata alcuna pressione o giudizio, vengono semplicemente ascoltate; quando invece emergono dai loro racconti atteggiamenti violenti da parte dei compagni – talvolta non percepiti come tali dalle donne che li subiscono – queste vengono aiutate ad individuarli e riflettervi. Sicuramente viene sempre chiesto se la donna è accompagnata e sostenuta nella sua decisione da parte del partner, familiari o amic* per capire che tipo di reti di aiuto ha la donna intorno a sè. Dopo che la donna ha preso la decisione definitiva di abortire, si procura autonomamente il farmaco e da quel punto comincia un accompagnamento telefonico attivo – che può essere interrotto in qualsiasi momento dalla donna – e che dura fino ai dieci giorni successivi all’aborto. In quell’occasione si commenta l’esito dell’ecografia di controllo e viene consigliato un rimedio anticoncezionale.

In un panorama culturale di tabù, oppressione esercitata dai gruppi cattolici e di assenza di strutture sanitarie per accedere ad un aborto sicuro, si può ben capire quale sia stato l’impatto sulla vita delle donne del Misoprostol e delle Socorristas – e delle esperienze affini da loro ispirate e generate. Queste, che si erano costituite come una soluzione temporanea fino al varo della legge sull’aborto, nonostante le continue minacce degli ‘anti-diritti’, non cesseranno comunque di esistere perchè una futura applicazione della legge non sarà sempre efficace e il cambio sociale del personale delle strutture sanitarie tarderà ad avvenire.  Infatti, se la legge verrà approvata, questa non garantirà la rimozione delle barriere all’accesso libero all’aborto e gli obiettori di coscienza e gli anti-diritti continueranno a pretendere di esercitare potere sul corpo delle donne. Le donne che vogliono terminare la loro gravidanza hanno il timore di essere maltrattate negli ospedali come spesso succede e continueranno ad aver bisogno di volto femminista che le accompagna nella decisione e in tutto il percorso di aborto. Il vero potere delle Socorristas a mio avviso è la messa in discussione della produzione dei saperi da parte dei poteri forti e opprimenti delle istituzioni, della medicina e della chiesa; loro, che non sono composte da personale medico, sono riuscite, mosse dalla forza della solidarietà femminista e dalla determinazione di non vedere più donne morire per un aborto, a generare un sapere che proviene da altre traiettorie, non gerarchizzato e comunitario.

L’esperienza delle Socorristas ha ispirato la creazione di altri gruppi di accompagnamento e in particolare della Red de Profesionales de la Salud por el Derecho a Decidir, costituita nel 2014 da personale sanitario che garantisce l’accesso all’aborto direttamente attraverso i centri di salute e gli ospedali. La Red de Profesionales sta aprendo nuove possibilità per praticare l’aborto in maniera legale applicando un’interpretazione flessibile del Codice Penale per somministrare il Misoprostol utilizzando la definizione di “salute integrale” cosí come stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e già anche suggerita dalla Sentenza  FAL. Le operatrici della Red de Profesionales somministrano la ricetta del Misoprostol a coloro che si trovano all’interno delle 12 settimane di gestazione e senza che necessariamente presentino circostanze di salute grave: è solo sufficiente dichiarare di non essere disposta a essere madre, condizione considerata rientrare nelle dimensioni psicologica, emotiva, sociale o economica della salute.[8] Le attiviste della Red de Profesionales hanno così potuto aiutare anche adolescenti interpretando il principio dell’autonomia progressiva prevista nel Codice Civile e Commerciale (art.26) che prevede che persone dai 13 anni in poi possano disporre autonomamente del proprio corpo; questo quindi consentirebbe di ritenere che abbiano la maturità sufficiente per consentire alla pratica dell’aborto. La Red de Profesionales ha formalizzato e reso visibile il lavoro di tante dottoresse che operavano già ma in solitudine e nascostamente trasformandosi in una rete di personale medico alleato e non obiettore che si adopera per rendere l’aborto accessibile negli ospedali con un approccio femminista basato sulla professionalità e finalizzato a prevenire gli episodi di maltrattamento e violenza ostetrica. La Red de Profesionales sta di fatto preparando la strada ad una futura applicazione della legge sull’aborto facendosi anche promotrice della creazione di corsi universitari specifici sull’aborto all’interno delle Facoltà di Medicina e di Scienze Sociali di Buenos Aires, Rosario e Rio Negro, corsi che fra l’altro stanno riscuotendo grande interesse e partecipazione. La Red de Profesionales ha raggiunto una copertura abbastanza ampia nel territorio argentino[9] anche se l’accesso risulta più facile (e in alcuni casi in forma gratuita) in alcune città come per esempio Buenos Aires e Rosario. Quest’ultima – che produce e distribuisce gratuitamente Misoprostol nelle proprie strutture sanitarie – rappresenta una città modello per l’applicazione estensiva da parte dei suoi ospedali di un protocollo di interruzione legale di gravidanza (Protocol de ILE) che ha permesso di ridurre a zero il tasso di mortalità per aborto nei centri di salute pubblica. 

Il progetto di legge

Il 28 maggio scorso la Campaña Nacional por el Derecho Aborto Legal, Seguro y Gratuito ha presentato nuovamente il disegno di legge sull’aborto. Instancabili le attiviste della campagna che, a partire dalla presentazione del primo progetto di legge il 28 maggio 2007, lo ripropongono tutti gli anni o appena è legalmente possibile, e continueranno a ripresentarlo fino a che non verrà approvato.

Il disegno di legge è stato il frutto di un lavoro decennale di coordinamento nazionale e tessitura di reti e scambio di saperi fra tutti i gruppi regionali facenti parte della campagna (a loro volta molto eterogenei al loro interno). Questi sono stati coinvolti in quattro mesi di discussione partecipata e orizzontale e che si è conclusa con un’assemblea nazionale lo scorso 16-17 marzo che ha approvato il nuovo disegno di legge. Questo, seppur mantenendo il suo originale impianto ideologico e dei diritti, ha apportato qualche modifica rispetto al precedente sulla base degli emendamenti suggeriti da alcuni deputati nella discussione parlamentare dell’anno scorso e recependo gli stimoli da parte delle varie realtà componenti la campagna.

Rispetto al precedente, il disegno di legge ha mantenuto il diritto all’accesso all’aborto fino alle 14 settimane di gestazione, termine che può essere prolungato nel caso di violenza sessuale o rischio di vita o di salute. L’interruzione di gravidanza deve essere garantita entro 5 giorni dalla richiesta senza la necessità di un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Il progetto di legge prevede due causali per l’interruzione volontaria di gravidanza riaffermando alcuni punti importanti sottolineati dalla sentenza FAL. La prima riguarda il caso che la gravidanza sia il prodotto di uno stupro con il solo requisito della dichiarazione giurata della persona gestante di fronte al personale sanitario e non anche di certificazioni che attestino l’avvenuta violenza sessuale. La seconda riguarda invece il rischio di vita o alla “salute integrale” della donna/persona gestante; per “salute integrale” ci si riferisce alla definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come completo benestare fisico, mentale e sociale e non solamente l’assenza di malattie.

Il progetto di legge enfatizza fra i suoi pilastri fondamentali quelli della laicità, del diritto all’autonomia, all’autodeterminazione, di decidere sul proprio corpo e sul proprio progetto di vita, anche al fine di arginare l’influenza e in risposta agli attacchi dei gruppi antiabortisti. A questo riguardo nella ultima proposta legislativa è stata completamente cancellata la possibilità di avvalersi dell’obiezione di coscienza da parte del personale medico e degli istituti di salute, prevista dal precedente disegno di legge anche se limitatamente alle strutture sanitarie private. L’eliminazione definitiva dell’obiezione di coscienza è giustificata dal fatto di essere “in conflitto con l’esercizio del diritto di aborto che non può essere negato per credenze o posizioni personali, religiose o morali.”[10] In questa ottica, il disegno di legge – come quello precedente – prevede che la persona che intende abortire debba ricevere informazioni sui diversi metodi di interruzione di gravidanza, i possibili effetti collaterali e i rischi di una posticipazione in un contesto laico di pieno consenso informato. La legge recita: “La informazione fornita deve essere oggettiva, pertinente, precisa, affidabile, comprensibile, scientifica, aggiornata e laica in maniera tale da garantire la piena comprensione della persona. […] In nessun caso può contenere considerazioni personali, religiose e assiologiche del personale sanitario nè di terzi”. Inoltre “l’assistenza e l’accompagnamento […] devono basarsi sul principio di autonomia, libertà, privacy, confidenzialità, a partire da una prospettiva dei diritti”.

Per quanto riguarda le novità della nuova proposta legislativa rispetto alla precedente, è stato introdotto come soggetto che ha diritto all’interruzione di gravidanza oltre alla categoria di ‘donne gestanti’, anche quella di ‘altre identità con capacità di gestazione’ con l’obiettivo di riconoscere e rispettare l’identità di genere di ciascuna persona. Questo modifica è stata apportata grazie al contributo alla campagna del movimento LGBT (e in particolare della Colectiva de Disidencias Sexogeneropolíticas). Queste realtà hanno sottolineato che la problematica dell’aborto non riguarda chi si riconosce con un’identità di genere femminile ma semplicemente coloro che hanno un utero e quindi anche i trans, non binar* e comunque tutte quelle soggettività che possedendo un apparato riproduttivo femminile non si sentono identificate nella categoria di donna[11]. Inoltre, il nuovo progetto di legge ha anche rafforzato rispetto al precedente l’enfasi sull’accesso agli anticoncezionali e alla educazione sessuale (educación sexual integral ESI), quest’ultima già divenuta obbligatoria con la Legge 26.150 del 2006 nei programmi scolastici di ogni ordine e grado ma mai veramente applicata. Il nuovo disegno di legge richiede la sua implementazione oltre a includere nei curriculum scolastici e nel percorso di studi degli operatori sanitari tematiche relative all’aborto con una prospettiva di genere, laica e basata sull’autonomia.

Il disegno di legge prevede inoltre la possibilità per le minorenni di accedere all’interruzione di gravidanza senza il consenso dei propri genitori. Questo è stato possibile attraverso l’introduzione del concetto di “capacità progressiva” (capacidad progresiva): mentre è richiesto il consenso da parte dei genitori o tutori  per adolescenti di età inferiore a 13 anni, per coloro dai 13 ai 16 anni si presume che abbiano una maturità sufficiente per decidere la pratica abortiva e prestare il proprio consenso ad eccezione nei casi nei quali sussista un grave rischio per la salute della assistita; dai 16 anni in poi si ritiene invece di possedere piena facoltà per esercitare i diritti previsti dalla legge.

La proposta legislativa introduce anche la riforma di alcuni articoli del Codice Penale tesi a risolvere il problema della persecuzione giudiziale delle donne che abortiscono e per punire l’obiezione di coscienza; in particolare questi stabiliscono la depenalizzazione delle persone che decidono di abortire oltre a prevedere l’incarcerazione da 3 mesi a un anno di tutti gli operatori sanitari che cercano di ritardare o impedire di esercitare il diritto all’aborto, pena che aumenta a tre anni nel caso di pregiudizio per la salute della donna[12].

Il disegno di legge rappresenta il miglior compromesso ottenibile dal dialogo fra le diverse realtà che compongono la campagna e con le forze politiche che lo andranno a discutere e votare. Tuttavia, questo presenta alcune criticità importanti; anzitutto la presenza delle causali, e non anche la previsione di un aborto libero in tutte le circostanze, sembrerebbe una contraddizione in termini con le finalità dell’autonomia delle donne e capacità di prendere decisioni sul proprio corpo al centro della campagna. Inoltre, se il disegno di legge non prevede l’obiezione di coscienza, la possibilità di questa potrebbe essere creata attraverso una interpretazione restrittiva delle causali e in particolare in merito alla sussistenza di un rischio per la salute della gestante. Questo può essere già dimostrato dai casi di rifiuto – raramente sanzionati-da parte del personale ospedaliero di eseguire interruzioni di gravidanza in seguito ad una violenza sessuale, nonostante la sua obbligatorietà sia già disciplinata dalla legge.

Inoltre, come mi ha fatto notare una rappresentante de La Hoguera, uno sportello femminista di accompagnamento all’aborto, ci sono altri elementi che potrebbero ostacolare il pieno accesso all’IVG oltre a favorire l’esercizio della violenza sui corpi delle donne. La proposta di legge non menziona le modalità con le quali si debba effettuare l’IVG oltre a non nominare il Misoprostol o l’aspirazione. Quindi, anche se la legge venisse approvata, questa potrebbe non essere in grado di prevenire pratiche di violenza ostetrica esercitate attualmente dal personale ospedaliero con l’imposizione di alcune pratiche abortive dolorose come il raschiamento o l’utilizzo del Misoprostol per via vaginale. Inoltre, come evidenziato dalle compagne de La Hoguera, la campagna sull’aborto non ha focalizzato sul problema dell’obiezione di coscienza delle farmacie, alcune delle quali si rifiutano attualmente di vendere il Misoprostol o chiedono documentazione aggiuntiva non necessaria (come doppia ricetta o storia clinica).

Conclusioni

Parlando con varie attiviste della Campaña la probabilità che il disegno di legge venga approvato – o anche solo discusso – durante questa legislatura è minima considerando le vicine elezioni di ottobre e una composizione parlamentaria immutata. L’obiettivo della campagna è comunque mantenere alta l’attenzione sulla tematica (sfruttando anche la mobilitazione sociale generata) e di utilizzare la congiuntura elettorale per esercitare maggiore pressione sui parlamentari affinchè siano costretti a trattare la questione nei dibattiti elettorali e venga presa una posizione definita riguardo la questione nell’agenda elettorale di partito. Infatti la tematica è profondamente divisiva all’interno dei singoli partiti – soprattutto i più grandi – nei quali sono presenti sia esponenti pro-aborto e antiabortisti che impediscono loro di prendere una posizione unitaria esponendodeli così al rischio di perdere voti alle prossime elezioni.

Indipendentemente da quello che succederà al disegno di legge, il vero successo della Campaña è stata la mobilitazione a livello sociale che ha generato. La Campaña ha avuto il potenziale di convogliare il consenso e unire i più svariati settori della società, quelli popolari, le associazioni, sindacati, frange di partiti di diverse correnti. Questo seguito è dovuto all’impegno e alla determinazione di continuare la loro battaglia delle attiviste della Campaña che a partire dall’Incontro Nazionale delle Donne di Rosario del 2003 cominciarono a discutere l’urgenza di una legge sull’aborto introducendo il pañuelo verde; quando cominciarono le loro prime manifestazioni con questo simbolo erano in poche e gli antidiritto col pañuelo celeste erano molto più numerosi e le chiamavano ‘assassine’. Le attiviste della Campaña si fecero spazio all’interno del movimento di donne argentino lanciando ufficiamente la Campaña il 28 maggio 2005 con lo slogan “Educación sexual para decidir, anticonceptivos para no abortar, aborto legal para no morir” (Educazione sessuale per decider, anticoncezionali per non abortare, aborto legale per non morire).  La Campaña si è allargata negli anni con la costituzione di gruppi regionali e tavoli di lavoro non solamente nelle città ma anche nelle località più isolate e conservatrici, facendo dilagare così il dibattito in tutto il paese. Le discussioni che hanno avuto luogo durante la presentazione del disegno di legge dell’anno passato è stato particolarmente arricchito da un’accresciuta mobilitazione delle più giovani, adolescenti e studenti e dalle loro pressanti richieste di introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole.  Fortemente sostenuta dalla ondata femminista che attraversa il paese, la discussione sulla legge al parlamento ha avuto un livello di mobilitazione e copertura mediatica massiva che ha permesso di aprire discussioni nella vita quotidiana delle persone. Tutto il processo, che ha accompagnato la presentazione del progetto di legge e che ha creato la marea verde, ha finalmente generato una depenalizzazione a livello sociale dell’aborto, rompendo solo a partire dall’anno scorso il tabù e trasformandolo in argomento centrale delle lotte sociali dilagando fino ai quartieri più poveri e imponendo la sua inderogabilità ai partiti politici. Ha quindi dimostrato che “l’aborto sicuro, legale e gratuito è una richiesta popolare e di massa” come si legge in un comunicato della Campaña[13].

Buenos Aires, 28 maggio 2019

Ringrazio le compagne della Campaña Nacional por el Derecho Aborto Legal, Seguro y Gratuito, delle Socorristas en Red, della Red de Profesionales de la Salud por el Derecho a Decidir e de La Hoguera per avermi dedicato il loro prezioso tempo e per avermi fornito informazioni e spunti importanti per la redazione del presente articolo.


[1]http://www.noticiasurbanas.com.ar/noticias/por-que-en-argentina-obligan-a-menores-a-parir-y-ser-madres-sin-respetar-las-leyes/; https://actualidad.rt.com/actualidad/302490-niegan-derecho-aborto-legal-nina-argentina;https://actualidad.rt.com/actualidad/306942-denuncian-nina-violada-argentina-obligada-cesarea

[2] http://www.abortolegal.com.ar/cuando-los-derechos-humanos-no-llegan-a-las-humanas/

[3]https://www.perfil.com/noticias/50y50/el-verdadero-debate-sobre-las-cifras-de-aborto-en-nuestro-pais.phtml

[4] https://www.pagina12.com.ar/197290-otra-muerte-por-aborto-clandestino

[5] https://actualidad.rt.com/actualidad/308768-mujer-muere-argentina-aborto-clandestino

[6] I materiali informativi sono disponibili qui https://socorristasenred.org/

[7] L’ultimo report aggiornato al 2018 si trova a questo link https://socorristasenred.org/wp-content/uploads/2019/06/Sistematizaci%C3%B3n-de-acompa%C3%B1amientos-a-abortar-realizados-en-el-a%C3%B1o-2018-por-Socorristas-en-Red.pdf

[8] http://www.redsaluddecidir.org/wp-content/uploads/Material-Para-Capacitaci%C3%B3n-1.pdf

[9] http://www.redsaluddecidir.org/donde-encontrarnos-recursero/#.XP_HmxYzbIU

[10] http://www.abortolegal.com.ar/nuevo-proyecto-de-ive-el-2019-seguira-siendo-verde/

[11] http://www.abortolegal.com.ar/nuevo-proyecto-de-ive-el-2019-seguira-siendo-verde/); http://www.abortolegal.com.ar/colectiva-de-disidencias-sexogeneropoliticas-en-la-campana/; https://www.facebook.com/Colectiva-de-Disidencias-Sexogeneropoliticas-442803349869670/

[12]Il progetto di legge si può leggere qua: http://www.abortolegal.com.ar/proyecto-de-ley-presentado-por-la-campana/

[13] http://www.abortolegal.com.ar/28m-de-las-calles-al-congreso-y-del-congreso-a-las-calles-decimos-aborto-legal-ya/

Un’analisi di genere sull’utilizzo della violenza sessuale nei conflitti armati e sugli approcci utilizzati per prevenirla [EN]

A gender analysis to understand Sexual Gender-Based Violence (SGBV) in Conflict & Lessons learnt to reduce the shortcomings of current approaches and develop more effective tools to address SGBV during conflict and post-conflict processes

In the last two decades an increasing interest has been directed towards the use of rape as a weapon of war in conflict. Even though this new concept has been effective to bring international attention to the issue, it must be integrated with a more holistic gender analysis that sees sexual violence as a continuum and rooted in pre-existing gender inequalities. The present essay is providing a brief gender analysis of Sexual Gender-based Violence (SGBV)[i] during conflict and transition processes. This will inform the second part of this article while reflecting on shortcomings of the current approaches and elaborating appropriate strategies to address the problem.

During the 1990’s the International Criminal Tribunals for Rwanda and Former Yugoslavia brought the use of mass rape in conflict to the knowledge of international mainstream media.  Sexual violence in conflict could not be anymore considered as an indiscriminate act of undisciplined soldiers and therefore a by-product of war but an integral part of a wider and systematic genocidial campaign (Bergoffen, 2009). Women’s anti-war organizations had to wait until the year 2000 to see the UN Security Council (UNSC) to specifically tackle for the first time the issue of women in conflict with the landmark resolution 1325 on Women, Peace and Security (WPS). The resolution was aimed at an increased women’s political participation in conflict resolution, and at the prevention and protection of women and girls from sexual violence in conflict (UNSC, 2000).  Subsequently, the UNSC adopted more resolutions within the WPS framework introducing similar issues from different angles including the use of rape as a weapon of war with UNSC Resolution 1829/2008. The resolution stated:  “women and girls are particularly targeted by the use of sexual violence, including as a tactic of war to humiliate, dominate, instill fear in, disperse and/or forcibly relocate civilian members of a community of a community or ethnic group” (UNSC, 2008).  Starting from this resolution sexual violence in conflict became a global security issue to fall under the mandate of the UNSC which became responsible for its monitoring. The resolution was a great and long wished achievement for women’s organizations; national governments and non-state actors were now obliged to protect women from sexual violence, given its binding nature for all UN members (Crawford, 2013).

Two concepts are suited to understand sexual violence in conflict: “conflict as a continuum” and “violence against women as a continuum” (Cockburn, 2004; 2010). Cockburn (2010) suggested that conflict does not consist just in open war but of “a continuum leading from militarism […] through militarization […], through episodes of ‘hot’ war […] followed perhaps by unsteady peace..” (Cockburn, 2010: 148). In her analysis violence produced in conflict is a gendered process; in the preparation to war the society experiences a process of polarization between masculinity and femininity that is used to construct an identity of a militarized man that distances himself from the despised category of weak women. Since their childhood males tend to be taught to be competitive and bold, in a militarized setting men’s identity is created through a continuous test of manliness and aggressiveness that in turn produce violence. Gender relations and their dichotomous character generate therefore violence; masculinity and militarism are fueling each other alimenting the spiraling of violence. Sexual violence represents one of the violent acts among others that increases in intensity in the escalation to war. Therefore, sexual violence is not created by war but is already present in the society as a product of patriarchy (Cockburn, 2004). This is also corroborated by the fact that SGBV and domestic violence are a reality also during peace and in the aftermath of war. The continuum is to be found also between the private and public sphere with soldiers and men venting their anger and distress from war pressure and political frustration against family members. Moreover, SGBV reproduces itself since it reinforces and perpetuates in post-conflict times gender norms which see rape as an act of subjection and commodification of women’s bodies (Boesten, 2010).

            A gender analysis of SGBV in conflict and post-conflict settings takes into consideration how differently vulnerable are women, girls, men and boys to sexual violence and to what extent gender inequalities contribute to it (Cockburn, 2013). Moreover, a context specific and intersectional analysis is required to fully understand the phenomenon; vulnerability to rape is, in fact, increased or decreased in relation to affiliation to a specific ethnic or religious group or in relation to their economic wealth, sexual orientation, disability etc. (Green & Sweetman, 2013). In general women are more vulnerable if they live in Internally Displaced Persons (IDP) or refugee camps, if they are single or head of households (Bastick et al., 2007). Women are usually more exposed to the risk of forced prostitution and sexual slavery. Women and girl combatants represent a particularly sensitive category because they often have to pay the price of their increased empowerment with “sexual favours” and sexual slavery in result of which they sometimes bear children (Denov & Ricard-Guay, 2013). Further than long-term psychological and physical consequences, women face stigmatization within their communities because they are considered traitors and ‘spoiled’; this discrimination is also directed to their children born in result of sexual violence (ODI, 2014).

            Even though statistics report a higher prevalence of rapes perpetrated against women, boys and men suffer from it as well especially when they are in custody or abducted to be recruited as soldiers. The cases of rape against boys and men are more underreported than those of women because of the risk of a higher stigmatization (Bastick et al., 2007). Those males who voluntarily or forcibly become combatants undergo a very thorough training that often involves torture, continuous harassment and brainwashing with racist, misogynistic and homophobic propaganda (Whitworth, 2004). Sexual violence and gang rapes are also used to enhance masculinity and as socialization tools to increase bonds among very diverse armies (in terms of ethnicity, class etc.) (Enloe, 1987) and otherwise scarcely motivated troops (especially when abducted or tortured) (Cohen, 2013). A militarized masculinity assumes different forms in different contexts; in Sierra Leone, for example, it is closely connected with committing brutal acts, whereas in countries which intend to abide by the Geneva Conventions focus on respect of the discipline – even if commonly believe that “non aggressive men are useless” (Cockburn, 2013: 439).

If gender discrimination is the root cause for sexual violence in conflict, rape is also played on gender roles that are further deployed to aggravate the acts of oppression and violence against the adversary. Cynthia Cockburn (2013) has suggested:  “A woman who is raped in war is raped as a woman, a despised category. A man who is raped is assaulted as a man, to reduce him to the status of a mere woman, and thus destroy his masculine self-respect” (Cockburn, 2013: 434). Therefore, to understand rape in conflict, it is important to analyse the symbolic representation in their societies of women’s and men’s identities and bodies. Women’s bodies, for example, are often conceived as vehicles of communication between opposing masculinities. Through rape men are sending a message aimed at demeaning opposing masculinities since they failed to protect their own women (Hansen, 2001). Moreover, since women are often seen as symbol of the motherland and of its culture, a victory over the enemy is symbolized with the seizure of their women’s body (Sneyder et al., 2006). In many societies women acquire subjectivity only in relation to their family and especially to its male members. If a woman loses her virginity, she loses her respectability and therefore any chances of getting married; moreover, if the woman was already married, she is often considered responsible for the fact and rejected by her husband. In this way rape acquires more effectiveness in order to creating trauma and breaking their internal cohesion within communities (Weitsman, 2008).

However, this analysis should let us think that SGBV during conflict is only perpetrated by armed forces and with the aim to humiliate a specific community. SGBV is also committed to satisfy sexual desire over women that conflict made exploitable to sex. Moreover, sexual violence is often pervasive at all levels of the society, in what Boesten (2010) calls “invisible sexual violence”, from the households to communities and often utilized as a tool to determine alliances and within households. Furthermore, as suggested earlier, sexual violence does not stop with the end of open hostilities; further than the continuation of domestic violence, in many cases transition times register an upsurge in SGBV as a form of retaliation and civilian violence as happened in Kenya in the aftermath of the elections in 2007 (Thomas et al., 2013). Moreover, in post-conflict countries violence and sexual violence is exacerbated by the circulation of small weapons appropriated by local militia or gangs. There are societies that remain highly militarized with a constant influx of weapons like in the case of Guatemala which has seen for long high rates of sexual violence and feminicides (Amnesty International, 2006). In the Pacific Islands the increased militarism caused by US-military bases is affecting women’s security in the region, generating sexual exploitation and driving indigenous people out of their lands (George, 2014).

 The introduction by the UNSC of the notion of rape as a weapon of war was useful to highlight the political utilization of rape in conflict and its harming and long-term effect on communities. In response to this new concern various organizations and governments have implemented different programs on sexual violence in their reconstruction and transitional justice initiatives.  However, the application of this approach has proved problematic in addressing  SGBV in conflict and post-conflict situations (Boesten, 2010).

Firstly, establishing when rape constitutes a weapon of war can prove very challenging. In open conflicts it would be difficult to collect statistics and reach an agreement between different actors to define if rape has attained the significance of weapon of war. Secondly this notion has shaped the approach of many humanitarian agencies and institutions providing a defined image of the “victim” which must be female and from the oppressed group. This has resulted in the exclusion from rehabilitation and empowerment programs of those who do not fit in the stereotype of the victim (e.g. men who have been subjected to rape, female perpetrators and victims who belong to the oppressing group) (Crawford, 2013). The example of the girls ex-combatants – many of which were also rape survivors – shows that, not being able to qualify for any social program, they have received a “spontaneous reintegration” in their communities without any kind of institutional support (Denov & Ricard-Guay, 2013).

            Moreover, the international tribunals and truth commissions called to address the wrongdoings committed during conflict have tended to provide the narrative of rape as a weapon of war as a “script” women have to adapt to if they wish to seek any justice or remedies. In the case of Rwanda the “script” was simply used as an instrument of propaganda against the Hutu and for the construction of a new national identity. In fact if the stories of the atrocities committed by the Hutu against Tutsi women found full coverage in the national media during all duration of the trials, women’s voices were less heard when voicing other demands like compensation or access to social services; also, only five people were in the end condemned with charges related to sexual violence. Moreover, sexual violence was persecuted only when it was against Tutsi women, completely ignoring the cases arose during the trial that saw Hutu women and Tusti men as rape victim. The case of Rwanda also showed that the situation was more complex than the “clear cut” between Hutu and Tutsi offered by the tribunal and that all women regardless their ethnic affiliation had  different degrees of vulnerability according to other factors related to class, economic status, political affiliation, geographic location among others. This kind of narrative prevents us from analysing what function was played by sexual violence within the genocide and how violence was connected to gender inequality, and what other social, economic and political factors made some categories of women more vulnerable (Buss, 2009).

Another negative effect of the “rape as a weapon of war” narrative is that it reinforces the dualism between perpetrators and victims depriving the latter of any agency. The result of this has been that most of the rehabilitation programs for women survivors have been dealing with the physical and psychological consequences of SGBV in conflict like for example with counseling services but have generally ignored other actions aimed to rebuild their lives like education or livelihood or other empowerment projects (Green&Sweetman, 2013). Moreover, many humanitarian and development agencies have tended to understand sexual violence as a threat to security only when associated to conflict and its immediate aftermath. Therefore, they have overlooked SGBV as a long-term problem during transition (Boesten, 2010).

            All the aforementioned considerations should make UN institutions and other humanitarian and development agencies come to the conclusion that there is a need for a context specific analysis to address SGBV in order not to marginalize some groups of people. Analysing rape in conflict through the lens of the weapon of war prevents us looking at other important intersecting components of women’s and men’s identities which make them more vulnerable. International criminal tribunals should also address these factors if they wish to give a fair remedy to survivors. Moreover, even though counseling is important, this should not make us forget that violence happens in a continuum and that to make a substantial improvement on women’s lives it is necessary firstly to change the conditions that allow gender discrimination. Finally it is also necessary to disentangle survivors from the image of victims and offer them the opportunity to express their full potential and build a new life.

            Two projects – even though not directly related to SGBV in conflict – could be replicated for these purposes. The first is the multi-year participatory action research (PAR) with female former combatants in Sierra Leone, Liberia, and northern Uganda which was aimed at overcoming the limitations of traditional rehabilitation programs. The project directly engaged the beneficiaries in the assessment of their needs. Small groups at local level discussed, decided and elaborated their own strategies which resulted in the direct implementation of small initiatives at local level mostly concerning livelihood, health and education (e.g. petty-trading, cassava farms, literacy classes etc.). The stories of the women involved in the PAR showed that the project was successful in improving their economic opportunities, regaining dignity and achieving a previously missing social recognition from their own communities (Worthen et al., 2010). Rape survivors, who experience a strong stigmatization that also often translates in preclusion from economic opportunities, can profitably benefit from this kind of programs. Creating space for empowerment would distance them from the perceived victimization and stigmatization and effectively create a new space for them within their own communities.

            The second kind of initiatives that could be applied to SGBV in conflict is a community-based primary prevention strategy, as was also implemented for a period of six years by the NGO Raising Voices in East Africa. The project was aimed at preventing gender-based violence starting from its own roots and involving all different sectors of the society – potentially every single member. It entailed involving the community to reflect on gender discrimination and on the causes of violence against women, and consequently engage it in a critical mass involved in a daily commitment in changing societal mindset. Community members were also repeatedly exposed to ideas related to gender equality that happened through different actions in different kind of contexts (e.g. school, workplace, etc.). This kind of project was conducted with full ownership from the community and has registered sensible progresses in changing people’s attitude and challenging gender stereotypes (Michau, 2007). A similar approach can be applied to address SGBV in post-conflict situations. The effectiveness of community-based primary prevention programs relies also on a strong involvement of men and perpetrators not individually or in isolation but as part of their own communities. This could be particularly viable in post-conflict societies that see a strong militarized masculinity; community-led programs could tackle SGBV from its origins engaging everyone to challenge the polarized notions of femininity and masculinity, and change gender stereotypes and therefore violent attitudes. If men are directly involved in the process and become active agents of social change, combating SGBV would become a closer reality. This kind of socialization should also invest government and military institutions; as Connell (2002) suggested, policies of demilitarization should aim to transform the way in which masculinity is constructed.

            A more substantial inclusion of women in decision making and at peace-negotiations is also a key factor in fighting against SGBV. Women are still predominantly excluded from negotiations tables notwithstanding their considerable contributions in building trust and cohesion within their own communities (Moosa et al., 2013). There is a need for an increased participation of women in peace-building negotiations that could include commitment for demobilizing armed forces not to commit rape as a condition for ceasefires. This should extend to an increased involvement in decision making power structures from local to national level. As George (2014) suggested women’s insecurity is also the result of a ‘masculinization of political institutions’. The lack of women’s political participation creates security concerns because some issues like gender-based violence are not addressed my male-dominated institutions; moreover military spending drives away resources from other important and necessary social and health services. The integration of a women’s perspective in peacebuilding would also make peace more sustainable especially in those contests where women present a more holistic and community-oriented approach to peace – considered in terms of absence of domestic violence, social and economic rights, access to social and health services (Moosa et al, 2013). Finally but not less importantly, it is responsibility of our own governments to contribute to the plight of women living under conflict. The Arms Trade Treaty (ATT) entered into force in December 2014 and includes a provision according to which, before exporting conventional arms, countries’ authorities should conduct an assessment to verify the potential risks that those arms would be utilized to perpetrate GBV (Green & Sweetman, 2013). Civil society organizations of weapons’ exporting countries should also push their own government to strictly observe the treaty and to impose sanctions on those countries which authorities are responsible of committing SGBV.

            In conclusion, a gender analysis of sexual violence in conflict is revealing how much strong are the ties with pre-existing gender discriminations within societies and at all levels from community to institutional. As suggested by Green & Sweetman (2013) to achieve ‘trasformative change’ we need to go to the very roots of gender inequality. This would mean also to analyse and change the connections between militarism and masculinity and between militarized masculinity and victimized femininity. We also need to avoid homogenization and look closer to specific narratives of women and men in order to be able address their particular needs and vulnerabilities. The latter should be explored with an intersectional approach looking at how they are related to gender inequalities and other power hierarchies. Not with an easy task are left institutional actors and NGOs called to find responses; long term projects and commitment are required and should invest all sectors of the society and all phases of the transition policies. The key for sustainable solutions is listening to the local women’s organizations and finally give them space to be actively involved in decisions that concern their own lives.

Bibliography

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[i] In this article I am using the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) definition of sexual violence including the following: “Rape, the most often cited form of sexual violence, is defined in many societies as sexual intercourse with another person without his/ her consent. Rape is committed when the victim’s resistance is overwhelmed by force or fear or other coercive means. However, the term sexual and gender-based violence encompasses a wide variety of abuses that includes sexual threats, exploitation, humiliation, assaults, molestation, domestic violence, incest, involuntary prostitution (sexual bartering), torture, insertion of objects into genital openings and attempted rape. Female genital mutilation and other harmful traditional practices (including early marriage, which substantially increases maternal morbidity and mortality) are forms of sexual and gender-based violence against women which cannot be overlooked nor justified on the grounds of tradition, culture or social conformity” (UNHCR, 1999: 35).

Paper: “Marginal Voices: a new methodological perspective for analysing peacebuilding in Myanmar”

University of Nottingham: “Social Sciences: Different Approaches, Different Solutions?” July 1st 2016

When people think about women from Myanmar/Burma,[1] they will probably call to mind the Nobel Peace Laureate Aung San Suu Kyi, the leader of the opposition party who spent more than twenty years under house arrest for her fight against the country’s die-hard dictatorship. Daughter of the national independence hero Aung San, she was able to exercise her legacy and leadership skills to successfully mobilize people and advocate with the government towards a democratic Myanmar (Harriden, 2012). The image of this powerful woman, however, contradicts the marginalization of the majority of women leaders and activists, especially those belonging to ethnic and religious minorities (Hedström, 2015a). I maintain that their ‘marginal voices’ have been dismissed, spoken for and, therefore, ‘colonized’ by male-dominated élites with regard to important issues concerning the country. One such issue is national security, a domain which is particularly problematic due to the almost seventy-year-old ethnic and religious conflict (Wilson, 2016).

In this paper I am analysing the process through which the ‘marginal voices’ are ‘colonized’ in what I would call a ‘male-streaming’ approach to security. I will illustrate how this could be counteracted by starting from women’s experiences and perspectives as also suggested by various theorists of Feminist Security Studies. I am using narrative approaches with the aim of ‘decolonizing’ their voices specifically with two tools: the human rights reports produced by multi-ethnic or ethnic-based women’s organizations and the autobiographical narratives of women coming from different ethnic background.

I am providing a brief overview of the ethnic conflict in Myanmar and then I am illustrating the ‘male-streaming’ approach and its ‘colonizing’ effect on women’s voices. Then I will proceed illustrating how narrative approaches can ‘decolonize’ women’s voices. In the conclusion I will discuss possible benefits of listening to women’s voices.

            A long history of dictatorship has marked Myanmar from 1962 and it came to an end in April 2016 with the inauguration of the first democratically-elected institutions in more than fifty years. Consequently, Myanmar politics has been characterized by a militarized and male-oriented leadership which always promoted xenophobic policies towards ethnic and religious minorities, in a country that counts 135 officially recognized ethnic groups (Steinberg, 2010). A conflict between the Tatmadaw (the national army) and different ethnic armed groups has been plaguing the country since its independence obtained in 1948 (Smith, 1991). The conflict has been interested the border regions of the country populated by ethnic minorities (show map, may be from storia delle donne). Numerous ceasefires have been signed over the years but they have been always unstable and continuously broken. A second kind of conflict has been involved Muslim religious minorities who were targeted by attacks by members of Buddhist populations from 2012-2014 in different parts of the country. The most affected community is the Rohingya, a Muslim minority living in Rakhine state, who counts thousands of displaced people and sees a mass migration through life-threating journeys by boat (…).

The Myanmar government has been always very concerned in keeping the country together considering its multi-ethnic nature. It has always acted in order to contain or neutralize the threats to the disintegration of the unity of the nation represented by the ethnic armed groups. These were formed shortly after the independence from the British colony because of unfulfilled promises of autonomy and self-determination (Gravers, 1993).  The government has pursued its security strategy by increasing the attacks on ethnic militia and targeting ethnic civilian populations considered potential supporters of ethnic armed groups.  Over decades ethnic people have been victim of various human rights violations such as forced labour, torture, arbitrary killing and arrest, and land confiscation among others (Women’s League of Burma – WLB, 2015). Moreover, the conflict has always had a strong economic dimension. Attacks were often aimed at gaining territorial control over economic strategic areas (rich of mineral resources or concerned with development projects such as dam and oil and pipelines). Over the years, the strategy of the Myanmar government was to persuade ethnic armed groups to sign various ceasefire agreements without any further settlement of political issue, fact that also cause the continual resumption of fighting. With regards to the conflict between Muslim and Buddhist populations, the government has endorsed a stance of some extremist monks who see Muslim populations as a threat to the state because of their ‘secret’ plan to invade the country (Beech, 2013). The government has consequently acted policies aimed to contain Muslim populations by segregating them in internally displaced camps with no freedom of movement and by acting discriminatory policies restricting marriage and birth (…). Notably absent from peace negotiation tables, and from any political discussion about the sectarian violence, are the majority of women who have been sidelined not only by government and military officials but also by the leaders of their own ethnic groups (Hedström, 2015a). Women have been invariably represented by different institutions exclusively as carriers of their culture and with a role limited to the domestic sphere; they have been just treated as victims of ethnic tensions or as docile supporters of different factions and therefore as agentless subjects. Besides being in violation of United Nations Security Council Resolution 1325, this situation is also in sharp contrast with the crucial and unceasing contribution that women’s organizations have been provided for the advancement of democracy and the promotion of peace culture in Myanmar (Hedström, 2015a). Conversely to what is dictated by the UN Women and Security agenda, to be mainstreamed are the interests and strategies of male-dominated institutions creating what I would call a ‘male-streaming’ approach to security.[2]  The ‘male-streaming’ materializes in the imposition of one single version of security, the one that reflects the interest of the dominant group: a male-dominated and militarized elite belonging to the majority ethnic group, the Bamar. The ‘male-streaming’ approach is operating as a form of ‘colonization’. ‘Colonization’ is here understood in Chandra Mohanty’s terms as “a relation of structural domination, and suppression – often violent – of the heterogeneity of the subject(s) in question” (Mohanty, 1984: 336). To be ‘colonized’ are what I call the ‘marginal voices’ of Myanmar women represented by women who because of their ethnic or religious identity, political orientation or lack of connections with armed groups cannot effectively influence the peacebuilding negotiations. With ‘marginal voices’ I am particularly referring to ethnic women who are active in the civil society through different means.

The approach to security promoted by the Myanmar government tends to follow a mainstream approach to security that has been criticized by various feminist scholars within Feminist Security Studies and Feminist International Relations. Ann Tickner (1992) in her seminal work Gender and International Relations has questioned a state-centered understanding of security which conceives it as absence of threats and preservation of state sovereignty (Tickner, 1992, 1997, 2014; Wibben, 2011). Feminist IR academics have also criticized the fact that dominant security narratives impose their vision of security as the only valid one excluding alternative narratives (Wibben, 2011; Delehanty & Steele, 2009). Therefore, as has suggested Annick Wibber, “traditional security narratives fix their meaning” (Wibben, 2011: 66); this is to say that its propagation and replication over time have cemented the way security is acknowledge and performed (Wibben, 2011). To disrupt its meaning it is therefore necessary to produce alternative narratives. One of the instrument is deploying what Cynthia Enloe (2004:3) has called a “feminist curiosity”, that is to say that we need to take people and women’s lives as referents of our study instead of states. If we look from the perspective of these new referents we can see for example that the state instead being the protector of people’s security, it often represents one of their major threats not least through acts of sexual violence (Stern, 2006).

The production of alternative understanding of security starting from women’s everyday experience is therefore central in order to disrupt the dominant narrative (Ackerly, Stern & True, 2006; Tickner, 2006; Wibben, 2011) and therefore to ‘decolonize’ Myanmar women’s voices.  However, according to Wibben to change the meaning of security, “it is not only enough to propose different contents but the form of security narratives also needs to be tackled” (Wibben, 2011:44). Feminist theorists have privileged qualitative methods “that allow women to document their own experiences in their own terms” (Tickner, 2006:41). These included ethnographic field work through interviews containing for example personal narratives on life history or war experience (Nordstrom, 1997; Stern, 2005; D’Costa, 2006). In the choice of my methods I have privileged those ones which in my opinion were able to communicate women’s agency. I have consequently followed what Jacoby (2006) calls “self-presentation”. Jacoby, who used interviews with open-ended questions, suggested that for the researcher to understand how subjects express their agency it  would be necessary to consider how they decide to frame their own agenda and how they wished to be represented. Moreover, if deploying a “feminist curiosity” as suggested by Enloe (2004:3) means listening to women attentively and taking them seriously, then I do believe that this curiosity should also encourage feminist academics to pay attention also to the tools that women themselves have chosen as theorizing subjects on security and peace. I have privileged two sources through which have expressed their ideas either collectively – in the case of women’s organizations reports, or individually – in the case of autobiographical stories.  Through a multiplicity of women’s narratives and a display of women’s agency, these tools could be able to counteract the single and indisputable ‘male-streaming’ approach of security and its homogenizing power over ethnic women’s identity.

The reports that I have analysed are discussing various conflict-related issues through the documentation of various human rights violations with most of these reported concerning sexual violence by the military. These reports were published in English language and produced by multi-ethnic and ethnic based women’s organizations most of them based in exile and belonging to the umbrella organization Women’s League of Burma (Thailand). The autobiographical accounts are from individual women from different ethnic and religious backgrounds who experienced war and militarization in different forms; some of them are migrant workers or refugees, some others are politically active within women’s or youth organizations with the majority of them not having prominent positions. The selected narratives are contained in two editions of Women’s Voices Series published by the organization I was working for, the Bangkok-based ALTSEAN – Burma, and specifically from Burma: Women’s Voices for Peace (2010) and Burma: Women’s Voices for Hope (2007) and from the autobiography Little Daughter of Zoya Phan, an ethnic Karen who fled the war and who works in London as Campaigns Manager for Burma Campaign UK. Autobiographies are complementary to women’s organizations reports because they present a wider array of perspectives that sometimes enrich and other times partially contradicts the collective positions exposed in human rights reports.

The ‘marginal voices’ contained in the women’s organizations’ reports and autobiographies have demonstrated that peace and security cannot be attained through the elimination of threats and the mere cessation of hostilities. It is probably not a surprise that instead of security, ethnic women are mostly talking about ‘insecurities’ term that I use to show the contrast with and the paradoxes of national security in the form which is advanced by the government . According to women’s organizations, security is hampered by violence perpetrated by the state in form of both of direct and structural violence. In fact, as documented by women’s organizations one of the main threats to women’s security is the national army, the Tatmadaw, which in the pursuit of national security goals, has engaged in acts of direct violence against ethnic populations (considered potential supporters of ethnic armed groups) including sexual violence against ethnic women. Insecurities are aggravated by forms of structural violence through the lack of welfare provisions, such as health and education and access to livelihood due to the excessive prioritization of military expenditures (WLB, 2000; WoB, 2000; WLB, 2004; WLB, 2006). Moreover, women’s organizations in various reports have dedicated a lot of attention to an intersectional analysis to demonstrate how the intersection of different axes of difference in particular gender, ethnicity and political affiliation make some women more vulnerable to human rights violations than others.

Autobiographical narratives enrich this perspective; through their illustrative power they have portrayed an extreme precariousness of the life of people who, both because of the conflict or the militarized economy, struggle every day to make a living. Autobiographies have also showed that women’s insecurities are multidirectional, they are coming not only or principally from the government, as mostly advanced by women’s organizations’ reports, but also from their own ethnic groups, including ethnic armed groups, communities and family units. In this regard these narratives confirm the concept of “war as continuum” as elucidated by Cynthia Cockburn and other feminist scholars who believe that violence not just starts with conflict and terminates with the end of it. For women, conflict manifests itself also in the domestic spheres where they are subjected to various forms of gender-based violence.

            Consequently when women have expressed what peace means for them they have come up with statements similar to this of May Sabe Phyu, one of the leading female peace activists:

“The peace that I seek is not only about the end of civil wars, but also the end of violence against women. Without this, we can’t say it’s true peace” May Sabe Phyu, Director of Gender Equality Network (Irrawaddy, 2014)

            Besides this when women have theorized the strategies to achieve peace they have identified multiple solutions such as the creation of a federal state that could guarantee the self-determination of ethnic groups and transitional justice mechanisms, themes that emerge in women’s organizations reports. In autobiographies where women have expressed their dreams and unfulfilled needs as basis of a peaceful life: being reunited with their families, going back to their native places and being able to pursue education.

            The key for peace identified in women’s various narratives is women’s political participation: this should allow women from civil society organizations to formally sit in peace table not just as observers. Women claim their right to be part of this process not just they are victims of the conflict or because they represent half of the population. They want to be able to contribute because they have the skills to help the country towards national reconciliation. Women have been active through various activities of conflict prevention. They have trying to persuade armies not to fight in residential areas, to not attack property and people and they have promoted dialogue between Muslim and Buddhist communities in order to prevent clashes. They have also worked through projects with affected communities providing humanitarian assistance and health services, they have given psychosocial support to the survivors of sexual violence. They are able to represent different interests because of this community work. Women’s organizations have also conducted leadership training for hundreds of women for about 20 years. However, they have are still dismissed both by the government and the members of their own ethnic groups. As Cheery Zahau, from the Women’s League of Chinland, has commented “We are trying to convince the men, but the men keep saying ‘oh we don’t have skillful women’. It’s just not true… We are here, we are ready, and we have the skills; we just need the opportunities” (Wolff, 2012).

Studies carried out for different conflict contexts in different countries have demonstrated that women’s substantial participation in peace negotiations has increased the chances for peace agreements to be signed, to be implemented and to last and therefore be more sustainable (Sandole & Staroste, 2015). As shown by women’s autobiographies women have repeatedly showed their commitment to work for the service of their community. Kham Lay (2010: 7) narrating her work with war-affected communities has stated: “We must walk on, through the jungle, the mine fields, the storms and the hunger. We must continue to reach our goals of peace and democracy in our country”. This perspective is in contrast with the ‘male-streamed’ interests of different actors who have merely concentrated in the military operations to take control of economically strategic areas and the cessation of hostilities in order to undertake economic businesses.

The ‘male-streamed’ institutions of Myanmar might not be persuaded by my arguments. However, the international community could exercise pressure on the country as demonstrated in the past through campaigns for the release of Aung San Suu Kyi and towards more democratic institutions. The European Union is one of the major donors of the current peacebuilding process. This institution has never tried to shake the current framework of the negotiations that see as exclusive negotiating partners the government and ethnic armed groups with a complete exclusion of the civil society, pattern that is also undertaken by Aung San Suu Kyi who is now leading the whole pacification process.  Notwithstanding EU formal commitments towards women’s inclusion in peace negotiations, it has never placed any conditionality for example on quota for implementing the actions it funds.  

            In conclusion, in this paper I have argued that the ‘marginal voices’ of Myanmar women bring a more holistic and comprehensive vision to security in comparison to the dominant and univocal purported by the Myanmar government. The ‘marginal voices’ of ethnic and politically active women aim to disrupt the state-centered narrative with their multiple perspectives. They are telling us about the detrimental impacts of the security management on the population consequently creating more insecurity. The ‘marginal voices’ are telling us that to achieve peace a cessation of hostilities is not enough; what it is needed is an elimination of all kinds of violence present at all levels of the society, including both direct and structural violence. From there it would be possible to build a more equitable and peaceful society based on the elimination of gender-based and ethnic discrimination where everyone could fulfill their own potential. Women have expressed through their actions and different narrative forms their commitment, capability and agency; if women’s voices are ‘decolonized’, they could enrich and significantly inform the current debate on pacification and lead to more successful actions in comparison to the ones pursued so far.


[1] The official name of the country is ‘Republic of the Union of Myanmar’ even if it also commonly referred with the colonial name ‘Burma’, the denomination held up to 1989. 

[2] This term is borrowed from Suzanne Clisby’s article Gender mainstreaming or just more male-streaming? (2005). Even though she is utilizing this word for different purposes and to explain a different context (the case of the Law of Popular Participation in Bolivia), I am retaining this phrase to signify how men’s interests are often privileged in the implementation of policies contravening gender mainstreaming principles.

The ‘marginal voices’ of Myanmar women: diverse perspectives on peace and security [EN]

Tesi del Women’s and Gender Studies Master (University of Hull and Universidad de Granada)

Abstract

In the long-lasting ethnic and religious conflict of Myanmar, women‟s voices have been consistently ignored and sidelined, notwithstanding their significant contributions to peacebuilding. I have maintained that their ‘marginal voices’ have been ‘colonized’ because the narrative of security and peace of dominant groups has been imposed on them.  These groups are represented by male-dominated, militarized and Bamar (the largest ethnicity in Myanmar) elites who have promoted discriminatory policies and the use of violence and military force as a means to solve the conflict. This approach excludes the visions of those people who, because of their lack of membership to hegemonic groups, are prevented from influencing power. Those who are predominantly marginalized are women belonging to ethnic and religious minorities and without any political or military affiliation. These ‘marginal voices’, I have argued, have the potential to disrupt the harmful, singular and undisputable nature of dominant narratives of security and peace.

As sources of my research, I have selected the narratives of ethnic women from different backgrounds who have expressed their views either collectively (through women’s organizations‟ reports and statements) or individually (through autobiographical stories). My analysis has been integrated with and validated by interviews with female peace activists from Myanmar. The selected narratives have presented alternative perspectives on security and peace that have, in turn, revealed the fallacies of the government‟s policies, clearing the way for more positive and effective peacebuilding strategies. They have also identified, as key factors of a sustainable peace, the elimination of all forms of violence and the transformation of power relations within Myanmar society. Besides reaffirming the previously negated existence of a women‟s agency, these narratives have also revealed that understandings of security and peace are inevitably diverse and multiple, and ascribable to one‟s own identity and experience of the conflict.

LA TESI E’ SCARICABILE AL SEGUENTE LINK
te_marginalvoices_finalversion_dipadovaok-compresso-1-1.pdf

“Corpi contesi, corpi negati. La rappresentazione delle donne nel Myanmar dei conflitti interreligiosi” (Contested bodies, negated bodies. Women’s representation within the religious conflict of Myanmar)

Storia delle Donne, 11 (2015), pp. 59-83.

Available online: http://www.fupress.net/index.php/sdd/article/view/17995/16892

Abstract: Il nazionalismo religioso ha sempre dominato la storia del Myanmar e l’accompagna nell’attuale fase di transizione democratica. Forte componente della sua propaganda è la figura della donna concepita come depositaria culturale e biologica della razza birmana e della religione buddista. Il corpo della donna viene strumentalizzato dall’establishment militare, aiutato da gruppi di monaci fondamentalisti, nel giustificare i propri abusi e mantenere il controllo sul paese. Il corpo viene “conteso” perché tramite lo stupro delle donne viene messa in atto un’opera di conquista e di oppressione verso delle minoranze etniche e religiose oltre ad una strategia di “birmanizzazione” culturale e biologica. Il corpo viene “negato” perché la donna è oggetto di politiche di “protezione della razza e della religione” che passano necessariamente dal controllo del suo corpo senza alcuna possibilità per lei di incidere su decisioni che riguardano la propria vita. Questa situazione viene contrastata dal vitale attivismo politico femminile che continua instancabilmente a promuovere i diritti delle donne e a sostenere il processo di democratizzazione del paese.

Abstract [English]. The history of Myanmar has been always characterized by religious nationalism that lasts through the current phase of democratic transition. A strong component of its propaganda is the conception of women as cultural and biological custodians of the Burman race and of the Buddhist religion. Women’s bodies are exploited by the military establishment, aided by fundamentalist monks, to justify human rights abuses and to maintain the control of the country. The body is ‘contested’ through the rape of women. The military engages in the conquest and the oppression of ethnic and religious minorities further than in a cultural and biological ‘burmanization’ strategy. The body is ‘denied’ because women are targeted by ‘race and religion protection’ policies that are inevitably implemented through the control on their bodies without providing them any chance of influencing decisions that concern their own lives. This background is contradicted by lively women’s political activism that tirelessly continues to promote women’s rights and advance the country’s democratization process.